𝐋𝐨 𝐬𝐚𝐩𝐞𝐯𝐢 𝐜𝐡𝐞?
Le figure mitologiche, nella nomenclatura binomiale, sono state ampiamente (e a volte ingiustamente) utilizzate. Abbiamo incontrato le tre Moire alcuni giorni fa. Nello specifico Atropo, per definire una falena. Ma Atropo la troviamo anche nel nome di una pianta che inizia a fiorire in questi giorni: 𝘈𝘵𝘳𝘰𝘱𝘢 𝘣𝘦𝘭𝘭𝘢-𝘥𝘰𝘯𝘯𝘢 o 𝘽𝙚𝙡𝙡𝙖𝙙𝙤𝙣𝙣𝙖. E’ una solanacea, della stessa famiglia di patate, melanzane, la datura, il tabacco. A seconda della specie, sono commestibili, produttrici di droghe ad uso medicinale, tossiche.
Vediamo nel dettaglio la belladonna. Partiamo dalla nomenclatura generica: Ἄτροπος”, 𝘈𝘵𝘳𝘰𝘱𝘰, la Moira che recide il filo della vita, ne causa la morte, detta anche l’immutabile, l’inevitabile, e si rifà all’alta tossicità della pianta. Il nome specifico si riferisce all’uso che ne facevano le nobildonne rinascimentali veneziane: ne versavano, come un 𝙘𝙤𝙡𝙡𝙞𝙧𝙞𝙤, alcune gocce negli occhi. Le pupille si dilatavano per effetto dell’atropina, donando alle Signore uno sguardo più profondo e seducente.
In Friuli VG la possiamo incontrare nella fascia montana e carsica, fino a 1400 metri s.l.m., in ambienti mediamente umidi, ai margini di quercete e faggete, su suoli limoso-argillosi. La pianta può raggiungere altezze di 70-150 cm grazie a un grosso fusto eretto, vischioso, che è ricoperto da peli ghiandolari responsabili dell’𝙤𝙙𝙤𝙧𝙚 𝙨𝙜𝙧𝙖𝙙𝙚𝙫𝙤𝙡𝙚 emanato dalla pianta.
Il fiore è una campanula pendula, di colore violaceo cupo, ma che in certe condizioni può assumere tonalità azzurrine o marroncine. L’impollinazione è entomogama, delegata cioè agli insetti impollinatori. Il frutto (una bacca) è globulare, nero lucido, contornato da un calice che si apre, durante la maturazione, a stella. Ovviamente, più è invitante e più è pericolosa. La bacca ha un sapore sgradevole, ma è spesso scambiata e ugualmente ingerita da avventati frequentatori di boschi. I sintomi del conseguente 𝙖𝙫𝙫𝙚𝙡𝙚𝙣𝙖𝙢𝙚𝙣𝙩𝙤 sono: diminuzione della sensibilità, delirio, sete, vomito, aritmie cardiache, calo della pressione arteriosa, difficoltà respiratorie, convulsioni, morte. Nei bambini sono sufficienti 2/3 bacche per rischiare la vita; all’adulto ne servono alcune di più.
L’avvelenamento è causato dalle sostanze tossiche prodotte dalla pianta: josciamina, atropina e scopolamina.
L’atropina, oltre a regalare sguardi lucidi, è ancora oggi usata in 𝘰𝘧𝘵𝘢𝘭𝘮𝘰𝘭𝘰𝘨𝘪𝘢 come dilatatore di pupille e come miorilassante prima di interventi chirurgici.
La concentrazione delle tossine presenti nella pianta è estremamente variabile e difficilmente quantificabile: le parti vegetali (foglie, fusto, rizoma, bacche) ne contengono in dosi diverse; intervengono anche il periodo vegetativo e la stagione a variare le quantità. Proprio per questo motivo l’uso resta pericoloso, anche se avviene sotto stretto controllo medico. Risulta comunque utile come antiepilettico, sedativo, spasmolitico, stimolante parasimpatico nel morbo di Parkinson; non da ultimo, come antidoto negli avvelenamenti da muscarina – presente nell’Amanita muscaria.
Anche il miele ottenuto dai fiori di belladonna è velenoso, e la sua tossicità è documentata nella letteratura medica, mentre la maggior parte degli uccelli può mangiare impunemente i frutti della pianta.
Termino lo spiegone con alcune note “leggere”.
La belladonna è la più conosciuta fra le cosiddette “piante delle streghe” consumate durante riti propiziatori. La conseguente intossicazione è caratterizzata da allucinazioni e disordini psicomotori che si manifestano con movimenti stereotipati di danza, riso, pianto, urla e tentativi di mordere chiunque si avvicini – tipici dei Sabba delle streghe. Le loro presunte capacità di levitazione sarebbero il risultato dell’assunzione collettiva di atropina (come Babbo Natale con la muscarina; leggi qui: https://www.tangia.it/lamanita-muscaria-non-solo…/ ).
La belladonna è stata usata in passato come veleno per le frecce, e alla morte dell’Imperatore Augusto si diffuse la voce che la moglie Livia l’avesse avvelenato con la belladonna.
Nell’undicesimo secolo, gli scozzesi respinsero l’attacco degli invasori danesi avvelenando con il succo delle bacche di belladonna la birra scura dei loro rivali.
ᶠᵒᵗᵒ: ᴬⁿᵈʳᵉᵃ ᴹᵒʳᵒ ᵖᵉʳ ᴰʳʸᵃᵈᵉˢ