𝐋𝐨 𝐬𝐚𝐩𝐞𝐯𝐢 𝐜𝐡𝐞?
Alla cugina Clematide alpina ho già dedicato uno spiegone, per l’unicità dell’ambiente in cui prolifera (https://www.tangia.it/clematide/). E’ a ragione definita la liana più settentrionale che possiamo annoverare tra le nostre piante autoctone, raggiungendo quote di poco inferiori a 2000 mt. s.l.m. La clematide vitalba (𝘊𝘭𝘦𝘮𝘢𝘵𝘪𝘴 𝘷𝘪𝘵𝘢𝘭𝘣𝘢) invece predilige ambienti meno estremi. La possiamo individuare con facilità in questi giorni tardo-autunnali per i numerosi ciuffi di capelli bianchi che appaiono rigogliosi tra i suoi fusti rampicanti.
I suoi epiteti scientifici sono tra i più antichi al mondo. Dioscoride (botanico e medico greco vissuto nel I sec. d.C.) la chiamò ‘pianta sarmentosa’ (dal greco “klema -atos”= pezzo di legno flessibile) e ‘vite bianca’ (dal latino “vitis-alba“=”vite bianca” per i suoi rami che si sviluppano come la vite, le infiorescenze biancastre e l’infruttescenza piumosa argentea).
Essendo una liana, il suo fusto ha bisogno di un supporto su cui arrampicarsi. Il denso fogliame, le rigogliose fioriture e lo sviluppo del fusto che può raggiungere i 20 metri di lunghezza, appesantiscono notevolmente la pianta che rischia di compromettere anche quella che la sorregge.
La prodigiosa crescita dei giovani tralci sarebbe la causa per cui l’usignolo ha adottato vita notturna. Pare infatti che una sera, affaticato dalla giornata trascorsa a cantare, si sia posato su una clematide vitalba per riposarsi. Durante la notte e con l’uccellino profondamente addormentato, il tralcio si è avviluppato intorno alle zampette dell’usignolo. Al mattino seguente lo sfortunato pennuto ha faticato non poco per liberarsi e riprendere il volo. Memore di questo spiacevole inconveniente, da allora l’usignolo di giorno sonnecchia e di notte tiene d’occhio la vitalba e canta per restare sveglio.
Ma l’immaginario popolare non si limita di certo al mondo animale. Ovviamente quei pennacchi pelosi sono i ciuffi dei capelli delle streghe che sfiorano, nel loro peregrinare per boschi alla ricerca di piante magiche, i tralci della clematide. In realtà si tratta delle code piumose degli acheni (i frutti) della clematide che ne permettono la dispersione anemocora, cioè sono trasportati dal vento.
La pianta contiene numerosi alcaloidi tossici che aumentano di concentrazione con l’invecchiamento della pianta. I tralci giovani, in primavera, possono essere raccolti nella loro parte apicale, sbollentati e conservati sott’olio, o aggiunti alla frittata o consumati come asparagi. Come sempre ribadisco il concetto che si raccoglie solo ciò che si conosce alla perfezione; altrimenti ci si appoggia a personale qualificato.
Con le lunghe liane coriacee si intrecciavano cesti, gerle e cordami e si legavano le fascine del legname. I rami più sottili, ma già legnosi, erano fumati a mò di sigarette (grazie Alessandro per la nota folkloristica). Per l’elevato contenuto di saponine tossiche, la pessima pratica provocava irritazioni delle mucose della gola e tossi persistenti. L’uso improprio era conosciuto anche nei paesi nordici: in Inghilterra era chiamata 𝘴𝘮𝘰𝘬𝘪𝘯𝘨 𝘤𝘢𝘯𝘦 (canna da fumo) o 𝘴𝘩𝘦𝘱𝘩𝘦𝘳𝘥’𝘴 𝘥𝘦𝘭𝘪𝘨𝘩𝘵 (delizia dei pastori, si suppone sarcasticamente).
Altro uso improprio: quello di spalmarsi la pelle esposta con le foglie di clematide vitalba. Il lattice che ne esce è urticante e provoca estese irritazioni, ulcerazioni, vesciche e piaghe. Solitamente erano i mendicante a farne uso, per impietosire i passanti e potenziali benefattori. Non a caso la pianta è chiamata anche “𝘦𝘳𝘣𝘢 𝘥𝘦𝘪 𝘤𝘦𝘯𝘤𝘪𝘰𝘴𝘪” 𝘰 “𝘦𝘳𝘣𝘢 𝘥𝘦𝘪 𝘱𝘦𝘻𝘻𝘦𝘯𝘵𝘪”.
Con i ciuffi si imbottivano trapunte e piumini mentre le foglie fresche, nonostante i pesanti e ben noti effetti collaterali, erano applicate come cataplasmi su zone affette da sciatalgia, artrite e gotta. L’infuso di foglie secche era ritenuto un ottimo diuretico; invece l’olio ricavato per macerazione delle foglie era un potente antiparassitario, utile nel combattere la scabbia.
Nel linguaggio dei fiori, la clematide vitalba simboleggia l’intelligenza limpida e onesta; è il fiore dell’artista, del creativo e di chi è in cerca di ispirazione. I Romani le permettevano di crescere lungo i muri perimetrali delle abitazioni, convinti che preservassero dai temporali.
In Friuli VG i nomi comuni si sprecano; eccone alcuni: Blaudin, Blaudinarie, Brundinarie, Brundinasa, Brunzin, Cincinis, Gardiule, Gridiule, Urtizzon, Viorna.
ᶠᵒᵗᵒ ⁽ᶠⁱᵒʳⁱᵗᵘʳᵃ⁾: ᴬᵗᵗⁱˡⁱᵒ ᴹᵃʳᶻᵒʳᵃᵗⁱ ᵖᵉʳ ᴬᶜᵗᵃ ᴾˡᵃⁿᵗᵃʳᵘᵐ; ⁽ᶠʳᵘᵗᵗⁱ ᵖⁱᵘᵐᵒˢⁱ⁾: ᵐⁱᵃ