Frico

𝐋𝐨 𝐬𝐚𝐩𝐞𝐯𝐢 𝐜𝐡𝐞?

Se l’attribuzione della denominazione PAT del Friuli VG al Tiramisù ha suscitato qualche rimostranza, affermare che il 𝙁𝙧𝙞𝙘𝙤 è il piatto friulano per eccellenza (nonché PAT del Friuli VG) mette d’accordo tutti, 𝘧𝘶𝘳𝘭𝘢𝘯𝘴 𝘦 𝘧𝘰𝘳𝘦𝘴𝘤𝘫.

Nasce come piatto “povero” in risposta alla necessità che avevano i lavoratori di portarsi appresso il pasto da consumare all’ora di pranzo, senza dover rientrare a casa. Le cuoche utilizzano ovviamente gli ingredienti presenti nelle cucine friulane di basso rango sociale: formaggio e patate. Era una pietanza servita regolarmente, allora. Oggi lo si prepara solo in occasione di ricorrenze o è elencato nei menu dei ristoranti.

Un libro di ricette del ‘400, il “𝘋𝘦 𝘈𝘳𝘵𝘦 𝘊𝘰𝘲𝘶𝘪𝘯𝘢𝘳𝘪𝘢” riporta la più antica versione del piatto; è dunque un reperto storico incontrovertibile. Il testo è opera di Maestro Martino da Como, cuoco personale del cardinale camerlengo Ludovico Scarampi Mezzarotta (nato Trevisano), Patriarca di Aquileia dal 1439 al 1465. Il prelato, soprannominato “Cardinal Lucullo” per l’opulenza dei suoi banchetti, aveva finanziato il Martino con venti ducati al giorno, da spendere in cibo ed elaborazione di tecniche culinarie innovative. La generosa disponibilità permise al Martino di produrre ricette nuove, proporle a palati raffinati e compilare il suo sopraccitato compendio di arte culinaria.

Ma torniamo al frico. La ricetta del Martino vuole che il formaggio sia scaldato in una padella con del lardo, per mantenerlo morbido. Molto probabilmente erano utilizzate “𝘭𝘪𝘴 𝘴𝘵𝘳𝘪𝘴𝘴𝘶𝘭𝘪𝘴”, ritagli di formaggio avanzati da altre pietanze, che altrimenti sarebbero andati sprecati.

Le leggende metropolitane glissano sui documenti storici, come ad esempio il ricettario nominato sopra. Preferiscono ammantare la storia di romanticismo e sacralità, attribuendo la nascita del frico al santo patrono della città di Udine, sant’𝙀𝙧𝙢𝙖𝙘𝙤𝙧𝙖 (I sec. d.C.). Pare che durante le sue peregrinazioni in Carnia avesse chiesto ospitalità e un pastore, bussando alla porta della sua abitazione. Il padrone di casa gli offrì i pochi prodotti presenti: una fetta di polenta, una ciotola di siero e una fettina di formaggio.

Il pastore si lamentò: “Almeno potessi ricavare dalla pentola un altro po’ di formaggio”. Il santo gli fece porre la pentola col siero sul fuoco, mentre lui e la moglie del pastore avrebbero pregato affinché il Signore li esaudisse. Il siero iniziò a bollire e il pastore esclamò: “Col siero così caldo, ricaveremo un formaggio duro come un sasso”. Il santo gli fece aggiungere acqua fredda. Il pastore continuò: “Non ho nemmeno un pezzetto di caglio”. Il santo gli fece versare dell’aceto e benedisse la pentola. Venne quindi a galla una poltiglia biancastra che il pastore levò col mestolo. Ma si bruciò ed esclamò: “scuete”, cioè ‘scotta’, per estensione ‘ricotta’. Il santo invitò il pastore a scaldare formaggio e ricotta in una ‘farsoria’: nacque così il frico, progenitore del piatto simbolo della regione.

La ricetta è stata poi rivista, cambiata, perfezionata e adeguata ai tempi e ai prodotti gastronomici in continua evoluzione. La ricotta è sostituita oggigiorno col 𝙈𝙤𝙣𝙩𝙖𝙨𝙞𝙤 o, al limite, con un latteria giovane. Come accade coi cjarsons, ogni famiglia o borgo elabora una propria ricetta (che è sempre la migliore, senza tema di smentita). Si utilizza il formaggio di stagionature diverse, si aggiungono ingredienti segreti e spezie varie per venire incontro a gusti, palati e tradizioni centenarie. Le 𝙥𝙖𝙩𝙖𝙩𝙚 invece sono gialle, rigorosamente, e tagliate a rondelle sottili o grattugiate. L’aggiunta di 𝙘𝙞𝙥𝙤𝙡𝙡𝙚 è facoltativa. Va servito caldo e filante e deve mantenere, possibilmente, la forma della padella in cui è stato cucinato, finendo per assomigliare a una frittata. In alcuni paesi carnici, si aggiungono anche fettine sottili di 𝙢𝙚𝙡𝙚 𝙧𝙚𝙣𝙚𝙩𝙩𝙚; assaggiare per credere.

Fin qui, le indicazioni per la 𝙫𝙖𝙧𝙞𝙖𝙣𝙩𝙚 𝙢𝙤𝙧𝙗𝙞𝙙𝙖 del frico.

Sì, perché c’è anche quella 𝙛𝙧𝙞𝙖𝙗𝙞𝙡𝙚, o croccante, che contiene invece solo formaggio. Si presenta come sfoglie tonde e sottili o cestini, pronti ad accogliere altro cibo. Proprio questa variante dovrebbe essere stata quella preferita dai contadini e boscaioli friulani, perché più semplice da trasportare e conservare.
Una ricetta recita così:
“𝘗𝘪𝘨𝘭𝘪𝘢 𝘥𝘦𝘭 𝘤𝘢𝘴𝘰 𝘨𝘳𝘢𝘴𝘴𝘰 𝘦𝘵 𝘤𝘩𝘦 𝘯𝘰𝘯 𝘴𝘪𝘢 𝘵𝘳𝘰𝘱𝘱𝘰 𝘷𝘦𝘤𝘤𝘩𝘪𝘰 𝘯é 𝘵𝘳𝘰𝘱𝘱𝘰 𝘴𝘢𝘭𝘢𝘵𝘰, 𝘦𝘵 𝘵𝘢𝘨𝘭𝘪𝘢𝘳𝘢𝘪 𝘪𝘯 𝘧𝘦𝘵𝘵𝘰𝘭𝘪𝘯𝘪 𝘰 𝘣𝘰𝘤𝘤𝘰𝘯𝘪 𝘲𝘶𝘢𝘥𝘳𝘪, 𝘰 𝘤𝘰𝘮𝘰 𝘵𝘪 𝘱𝘪𝘢𝘤𝘦; 𝘦𝘵 𝘩𝘢𝘣𝘪 𝘥𝘦 𝘭𝘦 𝘱𝘢𝘥𝘦𝘭𝘭𝘦𝘵𝘵𝘦 𝘧𝘢𝘵𝘵𝘦 𝘢 𝘵𝘢𝘭𝘦 𝘮𝘪𝘴𝘵𝘦𝘳𝘰; 𝘦𝘯 𝘦𝘭 𝘴𝘰𝘭 𝘧𝘰𝘯𝘥𝘰 𝘮𝘦𝘵𝘵𝘦𝘳𝘢𝘪 𝘶𝘯 𝘱𝘰𝘤𝘩𝘰 𝘥𝘦 𝘣𝘶𝘵𝘪𝘳𝘰, 𝘰𝘷𝘷𝘦𝘳𝘰 𝘥𝘪 𝘴𝘵𝘳𝘶𝘵𝘵𝘰 𝘧𝘳𝘦𝘴𝘤𝘰, 𝘱𝘰𝘯𝘦𝘯𝘥𝘰𝘭𝘦 𝘢 𝘴𝘤𝘢𝘭𝘥𝘢𝘳𝘦 𝘴𝘰𝘱𝘳𝘢 𝘭𝘦 𝘣𝘳𝘢𝘴𝘤𝘪𝘦, 𝘦𝘵 𝘥𝘦𝘯𝘵𝘳𝘰 𝘨𝘭𝘪 𝘮𝘦𝘵𝘵𝘪𝘳𝘢𝘪 𝘭𝘪 𝘥𝘪𝘵𝘵𝘪 𝘱𝘦𝘻𝘻𝘰𝘭𝘪 𝘥𝘪 𝘤𝘢𝘴𝘰; 𝘦𝘵 𝘤𝘰𝘮𝘰 𝘵𝘪 𝘱𝘪𝘢𝘤𝘦 𝘤𝘩𝘦 𝘴𝘪𝘢 𝘧𝘢𝘤𝘵𝘰 𝘵𝘦𝘯𝘦𝘳𝘰 𝘨𝘭𝘪 𝘥𝘢𝘳𝘢𝘪 𝘶𝘯𝘢 𝘷𝘰𝘭𝘵𝘢, 𝘦𝘵 𝘮𝘦𝘵𝘵𝘦𝘯𝘥𝘰𝘨𝘭𝘪 𝘴𝘰𝘱𝘳𝘢 𝘥𝘦𝘭 𝘻𝘶𝘤𝘤𝘩𝘢𝘳𝘰 𝘦𝘵 𝘥𝘦 𝘭𝘢 𝘤𝘢𝘯𝘯𝘦𝘭𝘭𝘢; 𝘦𝘵 𝘮𝘢𝘯𝘥𝘢𝘳𝘭𝘰 𝘴𝘶𝘣𝘪𝘵𝘰 𝘪𝘯 𝘵𝘢𝘷𝘰𝘭𝘢, 𝘤𝘩𝘦 𝘴𝘪 𝘷𝘰𝘭 𝘮𝘢𝘨𝘯𝘢𝘳𝘦 𝘤𝘢𝘭𝘥𝘰 𝘤𝘢𝘭𝘥𝘰.

𝘐𝘵𝘦𝘮 𝘱𝘰𝘵𝘦𝘳𝘢𝘪 𝘤𝘰𝘯𝘤𝘪𝘢𝘳𝘦 𝘪𝘯 𝘢𝘭𝘵𝘳𝘰 𝘮𝘰𝘥𝘰 𝘭𝘰 𝘥𝘪𝘵𝘵𝘰 𝘤𝘢𝘴𝘰 𝘣𝘳𝘶𝘴𝘵𝘰𝘭𝘢𝘯𝘥𝘰𝘭𝘰, 𝘱𝘳𝘪𝘮𝘢 𝘢𝘳𝘳𝘰𝘴𝘵𝘦𝘯𝘥𝘰 𝘢𝘭 𝘧𝘰𝘤𝘰 𝘥𝘦 𝘭𝘦 𝘧𝘦𝘵𝘵𝘦 𝘥𝘦 𝘭𝘰 𝘱𝘢𝘯𝘦 𝘵𝘢𝘯𝘵𝘰 𝘤𝘩𝘦 𝘥𝘢 𝘰𝘨𝘯𝘪 𝘭𝘢𝘵𝘰 𝘴’𝘪𝘯𝘤𝘰𝘮𝘪𝘯𝘤𝘪𝘯𝘰 𝘢 𝘳𝘰𝘴𝘵𝘪𝘳𝘦, 𝘮𝘦𝘵𝘵𝘦𝘯𝘥𝘰 𝘭𝘦 𝘥𝘪𝘤𝘵𝘦 𝘧𝘦𝘵𝘵𝘦 𝘱𝘦𝘳 𝘰𝘳𝘥𝘪𝘯𝘦 𝘪𝘯 𝘶𝘯𝘢 𝘱𝘢𝘥𝘦𝘭𝘭𝘢 𝘥𝘢 𝘵𝘰𝘳𝘵𝘦; 𝘦𝘵 𝘴𝘰𝘱𝘳𝘢 𝘢 𝘲𝘶𝘦𝘭𝘭𝘦 𝘱𝘰𝘯𝘦𝘳𝘢𝘪 𝘢𝘭𝘵𝘳𝘢𝘮𝘦𝘯𝘵𝘦 𝘧𝘦𝘤𝘵𝘦 𝘥𝘪 𝘤𝘢𝘴𝘰 𝘶𝘯 𝘱𝘰𝘤𝘩𝘰 𝘱𝘪ù 𝘴𝘰𝘵𝘵𝘪𝘭𝘪 𝘤𝘩𝘦 𝘲𝘶𝘦𝘭𝘭𝘦 𝘥𝘦 𝘭𝘰 𝘱𝘢𝘯𝘦, 𝘦𝘵 𝘴𝘰𝘱𝘳𝘢 𝘭𝘢 𝘱𝘢𝘥𝘦𝘭𝘭𝘢 𝘮ù𝘦𝘵𝘵𝘪𝘳𝘢𝘪 𝘭𝘰 𝘴𝘶𝘰 𝘤𝘰𝘱𝘦𝘳𝘤𝘩𝘪𝘰 𝘧𝘢𝘵𝘵𝘰 𝘤𝘢𝘭𝘥𝘰 𝘵𝘢𝘯𝘵𝘰 𝘤𝘩𝘦’𝘭 𝘥𝘪𝘵𝘵𝘰 𝘤𝘢𝘴𝘰 𝘴’𝘪𝘯𝘤𝘰𝘮𝘪𝘯𝘤𝘪 𝘢 𝘴𝘵𝘳𝘶𝘨𝘨𝘦𝘳𝘦, 𝘰 𝘢 𝘴𝘲𝘶𝘢𝘨𝘭𝘪𝘢𝘳𝘦. 𝘌𝘵 𝘧𝘢𝘤𝘵𝘰 𝘲𝘶𝘦𝘴𝘵𝘰 𝘨𝘭𝘪 𝘣𝘶𝘵𝘵𝘦𝘳𝘢𝘪 𝘥𝘪 𝘴𝘰𝘱𝘳𝘢 𝘥𝘦𝘭 𝘻𝘶𝘤𝘤𝘩𝘢𝘳𝘰 𝘤𝘰𝘯 𝘱𝘰𝘤𝘢 𝘥𝘪 𝘤𝘢𝘯𝘯𝘦𝘭𝘭𝘢, 𝘦𝘵 𝘻𝘦𝘯𝘻𝘦𝘷𝘦𝘳𝘰”.

Entrambe le versioni devono essere accompagnate da abbondante polenta abbrustolita e un buon bicchiere di 𝙫𝙞𝙣𝙤 𝙧𝙤𝙨𝙨𝙤, ad esempio un Refosco.

ᶠᵒᵗᵒ: ᵗʳᵃᵗᵗᵉ ᵈᵃˡ ʷᵉᵇ, ᵈⁱ ᵖᵘᵇᵇˡⁱᶜᵒ ᵈᵒᵐⁱⁿⁱᵒ