I boschi della Carnia

Una risorsa onnipresente

Nel tempo, il bosco è stato una delle risorse che ha garantito la sussistenza delle popolazioni della Carnia. Affinché il bosco possa essere valorizzato, divenendo risorsa, gli uomini devono imparare ad “addomesticarlo”, ad avvantaggiarsene soltanto quel tanto che serve per consentire il suo rinnovamento e la sua conservazione.

L’assetto geologico, la morfologia dei terreni, il clima e, non da ultimo, l’intervento dell’uomo, determinano l’estensione e la composizione del manto forestale di una regione. In Carnia, fin dalle prime fonti che hanno descritto, e progressivamente misurato estensione e composizione delle foreste, è attestata la presenza del bosco misto.

Niccolò Grassi, nella sua “𝘋𝘦𝘴𝘤𝘳𝘪𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 𝘥𝘦𝘭𝘭𝘢 𝘗𝘳𝘰𝘷𝘪𝘯𝘤𝘪𝘢 𝘥𝘦𝘭𝘭𝘢 𝘊𝘢𝘳𝘯𝘪𝘢” (1782), uno dei primi scritti sulla sua storia, sosteneva che i boschi erano “𝚛𝚒𝚙𝚒𝚎𝚗𝚒 𝚍𝚒 𝚊𝚕𝚝𝚒 𝚊𝚕𝚋𝚎𝚛𝚒 𝚍𝚒 𝙰𝚕𝚋𝚎𝚘, 𝚍𝚒 𝙿𝚒𝚗𝚘, 𝚎 𝚍𝚒 𝙻𝚊𝚛𝚒𝚌𝚎, 𝚌𝚑𝚎 𝚜𝚎𝚛𝚟𝚘𝚗𝚘 𝚙𝚎𝚛 𝚞𝚜𝚘 𝚍𝚎𝚕𝚕𝚎 𝚗𝚊𝚟𝚒 𝚎 𝚍𝚎𝚕𝚕𝚎 𝚏𝚊𝚋𝚋𝚛𝚒𝚌𝚑𝚎; 𝚙𝚎𝚛ò 𝚟𝚎𝚗𝚐𝚘𝚗𝚘 𝚜𝚙𝚎𝚍𝚒𝚝𝚒 𝚙𝚎𝚛 𝚒𝚕 𝙵𝚛𝚒𝚞𝚕𝚒, 𝚙𝚎𝚛 𝚅𝚎𝚗𝚎𝚣𝚒𝚊, 𝚙𝚎𝚛 𝚕𝚊 𝙼𝚊𝚛𝚌𝚊 𝚍’𝙰𝚗𝚌𝚘𝚗𝚊 𝚎 𝚙𝚎𝚛 𝚊𝚕𝚝𝚛𝚒 𝚙𝚊𝚎𝚜𝚒 𝚙𝚒ù 𝚕𝚘𝚗𝚝𝚊𝚗𝚒, 𝚌𝚘𝚗𝚍𝚞𝚌𝚎𝚗𝚍𝚘𝚕𝚒 𝚙𝚎𝚛 𝚒𝚕 𝚃𝚊𝚐𝚕𝚒𝚊𝚖𝚎𝚗𝚝𝚘 𝚎 𝚙𝚎𝚛 𝚒𝚕 𝙿𝚒𝚊𝚟𝚎”. All’abete (l’”albeo”) rosso (𝘱𝘦ç) e bianco (𝘥à𝘯𝘢), assieme al pino (𝘱𝘪𝘯) e al larice (𝘭à𝘳𝘪𝘴𝘤𝘫) va aggiunto il faggio (𝘧𝘢𝘫à𝘳/𝘧à𝘶), una delle essenze più diffuse in Carnia, che per la sua relativa importanza commerciale, il Grassi omise di citare.

Infatti, così proseguiva: “𝚕𝚎 𝚝𝚊𝚟𝚘𝚕𝚎 𝚍𝚒 𝚊𝚕𝚋𝚎𝚘, 𝚎 𝚍𝚒 𝙻𝚊𝚛𝚒𝚌𝚎, 𝚌𝚑𝚎 𝚜𝚒 𝚝𝚛𝚊𝚐𝚐𝚘𝚗𝚘 𝚍𝚊’ 𝚋𝚘𝚜𝚌𝚑𝚒 𝚍𝚎𝚕𝚕𝚊 𝙲𝚊𝚛𝚗𝚒𝚊, 𝚌𝚘𝚖𝚙𝚎𝚛𝚊𝚝𝚎 𝚍𝚊𝚒 𝙼𝚎𝚛𝚌𝚊𝚗𝚝𝚒 𝚟𝚎𝚗𝚐𝚘𝚗𝚘 𝚒𝚗 𝚐𝚛𝚊𝚗 𝚌𝚘𝚙𝚒𝚊 𝚌𝚘𝚗𝚍𝚘𝚝𝚝𝚎 𝚊 𝚅𝚎𝚗𝚎𝚣𝚒𝚊, 𝚎𝚍 𝚊 𝚂𝚒𝚗𝚒𝚐𝚊𝚐𝚕𝚒𝚊, 𝚎𝚍 𝚒𝚗𝚍𝚒 𝚝𝚛𝚊𝚜𝚙𝚘𝚛𝚝𝚊𝚝𝚎 𝚙𝚎𝚛 𝚖𝚊𝚛𝚎 𝚒𝚗 𝚟𝚊𝚛𝚒𝚎 𝚙𝚊𝚛𝚝𝚒 𝚍𝚎𝚕 𝚖𝚘𝚗𝚍𝚘.”

L’importanza commerciale del bosco nell’economia della Carnia era tale anche in ragione della sua ampia estensione, pari soltanto a quella dei pascoli e delle malghe (𝘮ò𝘯𝘵𝘴). Di converso, la superficie coltivabile era del tutto trascurabile, tale da rendere la Carnia un territorio dipendente dalla pianura per l’approvvigionamento alimentare. “𝘗𝘦𝘳 𝘭𝘢 𝘴𝘤𝘢𝘳𝘴𝘦𝘻𝘻𝘢 𝘥𝘦𝘭𝘭𝘦 𝘴𝘶𝘦 𝘤𝘢𝘮𝘱𝘢𝘨𝘯𝘦 – proseguiva il Grassi – 𝘦 𝘱𝘦𝘳 𝘭𝘢 𝘳𝘢𝘱𝘢𝘤𝘪𝘵à 𝘥𝘦𝘪 𝘧𝘪𝘶𝘮𝘪 𝘦 𝘵𝘰𝘳𝘳𝘦𝘯𝘵𝘪 𝘤𝘩𝘦 𝘤𝘰𝘯 𝘪𝘯𝘤𝘳𝘦𝘥𝘪𝘣𝘪𝘭 𝘪𝘮𝘱𝘦𝘵𝘰 𝘤𝘢𝘥𝘰𝘯𝘰 𝘥𝘢’ 𝘮𝘰𝘯𝘵𝘪 𝘢𝘭 𝘱𝘪𝘢𝘯𝘰, 𝘦 𝘪𝘯 𝘯𝘪𝘶𝘯 𝘢𝘭𝘷𝘦𝘰 𝘳𝘪𝘯𝘴𝘦𝘳𝘳𝘢𝘵𝘪, 𝘴𝘦𝘤𝘰 𝘵𝘳𝘢𝘨𝘨𝘰𝘯𝘰 𝘷𝘪𝘢 𝘨𝘳𝘢𝘯𝘥𝘪 𝘮𝘶𝘤𝘤𝘩𝘪 𝘥𝘪 𝘵𝘦𝘳𝘳𝘢, 𝘦 𝘥𝘪 𝘴𝘢𝘴𝘴𝘪 𝘦 𝘥𝘢𝘱𝘱𝘦𝘳𝘵𝘶𝘵𝘵𝘰 𝘳𝘰𝘷𝘪𝘯𝘢𝘯𝘰 𝘭𝘦 𝘤𝘢𝘮𝘱𝘢𝘨𝘯𝘦, 𝘭𝘢 𝘗𝘳𝘰𝘷𝘪𝘯𝘤𝘪𝘢 𝘦 𝘴ì 𝘮𝘢𝘯𝘤𝘢𝘯𝘵𝘦 𝘪𝘯 𝘨𝘳𝘢𝘯𝘰 𝘤𝘩𝘦 𝘯𝘰𝘯 𝘱𝘶ò 𝘴𝘰𝘮𝘮𝘪𝘯𝘪𝘴𝘵𝘳𝘢𝘳𝘦 𝘭𝘦 𝘣𝘪𝘢𝘥𝘦 𝘯𝘦𝘤𝘦𝘴𝘴𝘢𝘳𝘪𝘦 𝘢𝘭 𝘷𝘪𝘵𝘵𝘰, 𝘦 𝘮𝘢𝘯𝘵𝘦𝘯𝘪𝘮𝘦𝘯𝘵𝘰 𝘥𝘦𝘨𝘭𝘪 𝘢𝘣𝘪𝘵𝘢𝘯𝘵𝘪, 𝘴𝘦 𝘯𝘰𝘯 𝘱𝘦𝘳 𝘮𝘦𝘴𝘪, 𝘵𝘳𝘦 𝘰 𝘱𝘰𝘤𝘰 𝘱𝘪ù 𝘢𝘭𝘭’𝘢𝘯𝘯𝘰.”

La distribuzione colturale, misurata dai periti catasticatori durante la prima metà dell’Ottocento, mise in luce la presenza di faggio, di abete rosso e bianco, di larice, di pino. Quasi del tutto assente, a differenza di quel che accadeva in altre aree alpine e nelle colline, il castagno, il cui frutto – 𝘭𝘢𝘴 𝘤𝘫𝘢𝘴𝘵𝘪𝘨𝘯𝘢𝘴 – non figura se non marginalmente nella pensa nella mensa dei carnici.

La spinta alla progressiva sostituzione del faggio a favore dell’abete, intrapresa nei primi decenni dell’Ottocento dall’amministrazione austriaca, condizionò la copertura vegetativa di alcune aree. Questi interventi, poco rispettosi della composizione silvo-colturale, oggidì non sono più praticabili. Il bosco, infatti, viene assunto non soltanto come un dispensatore di prodotti, ma come un organismo rilevante dell’ecosistema. La tutela del territorio e la sua protezione dalle frane e dalle valanghe, messe bene in luce anche dal Grassi, sono garantite da una corretta gestione del bosco, in grado anche di contenere l’azione erosiva e violenta delle acque del torrenti e dei fiumi di Carnia.

Accedere al bosco significa esercitare un diritto su di una risorsa indispensabile. La composizione delle forme di proprietà e di possesso sui boschi della Carnia è il frutto di un processo storico articolato, nel quale diversi sono stati gli attori: le comunità di villaggio, le signorie feudali, gli stati – il Patriarcato di Aquileia, la Repubblica di Venezia, il Regno lombardo-veneto, il Regno e la Repubblica d’Italia – e i privati cittadini.

Al principio del Seicento, la Dominante intraprese il primo 𝘤𝘢𝘵𝘢𝘴𝘵𝘪𝘤𝘰 dei beni comunali. Fu in quell’occasione che si stabilì per l’intera regione carnica e, per la prima volta, la natura giuridica di questi beni, fra i quali venivano annoverati parte considerevole dei boschi. Lo stato veneziano attribuì alle comunità di villaggio (le 𝘷𝘪𝘭𝘭𝘦) il 𝘨𝘰𝘥𝘪𝘮𝘦𝘯𝘵𝘰 e la custodia di questi beni a seguito di una 𝘪𝘯𝘷𝘦𝘴𝘵𝘪𝘵𝘶𝘳𝘢, mantenendone la proprietà.

La ricchezza che ne derivava per le comunità era enorme: usufruire dei boschi direttamente per l’approvvigionamento del combustibile, così come dei quantitativi necessari alle costruzione e alla manutenzione delle case, oppure ricavarne benefici monetari attraverso l’affitto ai mercanti, erano prerogative quasi sconosciute alla comunità di pianura. L’ingente patrimonio a disposizione delle comunità, prendendo a prestito le parole dello storico Niccolò Grassi, consentiva di ricavare “𝚞𝚗 𝚌𝚘𝚗𝚜𝚒𝚍𝚎𝚛𝚎𝚟𝚘𝚕𝚎 𝚙𝚛𝚘𝚏𝚒𝚝𝚝𝚘… 𝚚𝚞𝚊𝚕𝚘𝚛 𝚒 𝚍𝚒𝚛𝚎𝚝𝚝𝚘𝚛𝚒 𝙲𝚊𝚙𝚒 𝚍𝚎𝚕𝚕𝚎 𝚟𝚒𝚕𝚕𝚎 𝚎𝚜𝚎𝚛𝚌𝚒𝚝𝚒𝚗𝚘 𝚗𝚎𝚒 𝚛𝚒𝚜𝚙𝚎𝚝𝚝𝚒𝚟𝚒 𝙲𝚘𝚖𝚞𝚗𝚒 𝚞𝚗𝚊 𝚏𝚎𝚍𝚎𝚕𝚎 𝚎𝚌𝚘𝚗𝚘𝚖𝚒𝚊 𝚍𝚎𝚒 𝚖𝚎𝚍𝚎𝚜𝚒𝚖𝚒” (1782).

Soltanto gli 𝘰𝘳𝘪𝘨𝘪𝘯𝘢𝘳𝘪, gli eredi delle casate che conservavano acceso il 𝘧𝘶𝘰𝘤𝘰 nel villaggio, potevano godere di questi diritti, mentre i 𝘧𝘰𝘳𝘦𝘴𝘵𝘪, i forestieri, ne erano rigidamente esclusi. In virtù della ricchezza dei boschi, il rispetto dei loro confini, ossia delle pertinenze dei diversi proprietari e possessori, era fonte di tante liti. Talvolta, raggiungendo una risoluzione di queste, si fissavano i termini attraverso i cippi (𝘤𝘰𝘭𝘰𝘯è𝘪) contrassegnati dalla croce e dalla sigla “CX” ossia Consiglio dei Dieci, la temuta magistratura giudicante della Repubblica di Venezia che deteneva giurisdizione sui reati commessi nei boschi.

Durante l’amministrazione austriaca, il possesso dei boschi delle comunità divenne proprietà dei comuni, che tutt’ora detengono la quantità più vasta dei boschi. Ma in diversi casi, con una continuità secolare, i boschi sono rimasti di proprietà delle comunità – i beni cosiddetti ‘civici’.

Accanto alle estensioni private e di natura feudale, che pur esigue, non mancavano, a completare un quadro articolato frutto delle molteplici esigenze, al quale il bosco veniva chiamato ad assolvere, era la porzione dei cosiddetti boschi ‘banditi’. Nel 1580 il Senato della Repubblica arrogò all’uso esclusivo delle esigenze dello stato quarantasette boschi nel territorio carnico. La sottrazione di questi comparti alle comunità fu oggetto di aspre critiche: le ville intendevano dimostrare il legame diretto fra il diritto di possedere i boschi e la sopravvivenza dei “fedeli sudditi” della Repubblica. Questo comparto pubblico è all’origine delle proprietà dei Consorzio Boschi Carnici.

Un quadro così variegato nel quale convivevano – e convivono – diverse modalità di possedere i boschi, dimostra che la ricchezza di una risorsa è tale in ragione delle possibilità di potersene avvantaggiare e nella misura in cui la si può raggiungere, tagliare e trasportare la distanze anche notevoli. Si tratta di vincoli che regolano e danno l’avvio alla cosiddetta ‘filiera del legno’.

ᴰⁱᵈᵃˢᶜᵃˡⁱᵉ ᵖʳᵉˢᵉⁿᵗⁱ ᵃˡˡ’ⁱⁿᵗᵉʳⁿᵒ ᵈᵉˡ ‘ᴹᵘˢᵉᵒ ᵈᵉˡˡᵃ ˢᵉᵍʰᵉʳⁱᵃ’ ᵈⁱ ᴬᵖˡⁱˢ, ᴼᵛᵃʳᵒ