Lusevera, gli alpeggi

𝙄 𝙋𝙍𝙊𝘿𝙊𝙏𝙏𝙄 𝘾𝘼𝙎𝙀𝘼𝙍𝙄
Nelle latterie alpestri si preparava: burro, formaggio, ricotta.

Per il 𝘣𝘶𝘳𝘳𝘰, si spannava il latte messo in apposite ramine e lasciato a riposo per almeno dodici ore perché facesse “cappello”. Il “cappello” si faceva poi scivolare, tenendovi sopra obliqua la ramina, in un mastello di legno.

La 𝘱𝘢𝘯𝘯𝘢 ottenuta si sbatteva nella “zangola”: un recipiente a forma di tronco di cono, con uno stantuffo bucherellato che, saliscendendo ininterrottamente, la faceva impazzire e raggrumare. Appena estratto, il burro si risciacquava ripetutamente con acqua fresca per lavarlo dal latticello e rassodarlo, se ne formavano poi delle belle palle sferiche che si portavano al mercato. Il latticello serviva per companatico.

Per il 𝘧𝘰𝘳𝘮𝘢𝘨𝘨𝘪𝘰 adoperavano una grande caldaia di rame dove riunivano il latte spannato della sera precedente a quello interno (non spannato) del mattino e lo scaldavano sapientemente e cagliavano con caglio preparato in casa.

Il 𝘤𝘢𝘨𝘭𝘪𝘰 lo preparavano così: uccidevano un vitello da latte, tagliavano dallo stomaco quella parte che conteneva ancora latte coagulato e la mettevano a seccare, poi l’adoperavano, ogni cento litri, una “noce di caglio”. Anche qui occorreva occhio e pratica.
Il grado di cottura veniva dal casaro accertato al “tocco”, cioè palpando e mescolando, tra le dita, nella caldaia mentre si scaldava un po’ della pasta. Per termometro serviva la mano sensibile, abituata al lavoro.
A cottura giusta, il pastone veniva tolto dal siero con apposito canovaccio e stretto in strisce elastiche di faggio (obodnò), sulle quali posavano una tavoletta e, sopra di essa, un peso. Nella giornata veniva voltato e rivoltato, fino a che non avesse preso bene la forma, poi, messo in libertà; si salava prima da una parte e poi dall’altra e quest’ultima operazione durava circa dieci giorni, dopo di che si metteva a stagionare.

La 𝘳𝘪𝘤𝘰𝘵𝘵𝘢 si preparava così: appena tolto il formaggio dalla caldaia, s’allontanava dal fuoco, restava un siero bianchiccio perché conteneva ancora un po’ di parte grassa; rimettevano al fuoco la caldaia, aggiungevano legna a poco a poco e prima che il contenuto arrivasse a bollore, vi gettavano una certa quantità di siero freddo tolto in precedenza, mescolando con una dose (secondo i litri) di acido del mastelletto.
In pochi minuti la superficie del liquido della caldaia si copriva d’una schiuma candida che condensava in pochi istanti; la caldaia veniva allora tolta dal fuoco e con una mestola forata, si provvedeva a togliere lo schiumone dalla superfici e radunarlo in appositi sacchetti di canapa tessuta rada che messi a sgocciolare, scodellavano dopo un paio di ore, un bel “pane” di profumata e dolce ricotta che si mangiava fresca o si componeva in forme compresse e messe ad affumicare, o ancora si metteva ad inacidire in appositi vasi di pietra, ben chiusi da un coperchio di legno. Quest’ultima veniva consumata in inverno e aveva un sapore molto piccante.
ᵀᵉˢᵗᵒ ᵗʳᵃᵗᵗᵒ ᵈᵃ ᵘⁿᵃ ᵈⁱᵈᵃˢᶜᵃˡⁱᵃ ᵖʳᵉˢᵉⁿᵗᵉ ⁿᵉˡ ᵐᵘˢᵉᵒ ᵉᵗⁿᵒᵍʳᵃᶠⁱᶜᵒ ᵈⁱ ᴸᵘˢᵉᵛᵉʳᵃ ⁽ᵁᴰ⁾
ᶠᵒᵗᵒ: ᵐⁱᵃ

Stampo per il burro – “forme par spongje”, fotografato nel museo etnografico di Lusevera (UD)

2 Risposte a “Lusevera, gli alpeggi”

    1. Grazie per questo commento. L’intenzione è proprio quella di riscoprire le nostre radici e ricordi.

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