“Cinzia! Come le consumiamo le nostre giornate di ferie non ancora godute? Ma soprattutto, come facciamo a percorrere un Cammino in Friuli, senza trascurare figli, famiglia, casa, animali domestici?” Questi sono i nostri dilemmi: strazianti, reali, condivisi. Le Pievi? Fatte. San Cristoforo? Ancora troppo frammentato. Le 44 Chiesette votive? E che ci mettiamo a farlo; tre giorni forse? Troppo poco. “Cinzia, sono 10 anni che tengo d’occhio il Cammino Celeste. Che sia arrivato il suo momento?”
Lo sguardo della mia amica parla chiaro: “tu studia, suddividi, calcola, metti giù un piano di battaglia e io ci sono.” Adoro questo tipo di sguardo e di amiche. Ed è così, anche stavolta, che partiamo per un Cammino friulano “a modo nostro”. Il metodo è collaudato, ormai: ci si da appuntamento in due (condicio sine qua non) al fine tappa, si lascia lì un’auto, con l’altra macchina si raggiunge l’inizio tappa e, tenendo sott’occhio kilometri e dislivelli, ci si getta nell’avventura giornaliera.
Stavolta abbiamo pure le credenziali, che sia in occasione della Via Flavia che del Cammino delle Pievi, ci sono mancate. Non che ci teniamo maniacalmente, sia ben chiaro. Si tratta solo di mettere nero su bianco il nostro entusiasmo, la perseveranza e la costanza che ci animano. E vuoi mettere? Appendere le credenziali del Cammino Celeste sull’anta del frigo, finché il tempo non avrà sbiadito l’inchiostro dei timbri.
Io e Cinzia ci conosciamo, abbiamo avuto modo di testare i reciproci limiti e forze. E sappiamo che 7 giornate al ritmo di 30 kilometri e 1100 dsl+ a tratta non ci spaventano. E questa sarà la nostra tabella di marcia, sempre flessibile e adattabile alle condizioni fisiche nostre (e di chi ci accompagnerà) e al meteo, che non smentendosi, ci renderà l’impresa un po’ più ardua di quanto sperato.
La nostra avventura ha inizio il 16 giugno, alle 4.00, al suono della sveglia. Incontro Cinzia a Cormons, entrambe incredule che anche questa impresa prenda davvero il via. Raggiungiamo Aquileia, baciate dal sole del mattino.
Foto di rito di fronte alla Basilica, apposizione del primo timbro sulla credenziale ancora immacolata e subito ha inizio la caccia ai cartelli azzurri col pesciolino, simbolo del Cammino Celeste. Ne troviamo uno sul retro della Basilica, proprio dove troviamo anche l’ultima freccia gialla che decreta la fine della via Flavia. Il pesciolino però ci indica la direzione opposta: verso nord, verso i monti, verso quella che per noi è “casa”.
Infatti la pianura la sentiamo estranea, accogliente e benevola sì, ma non proprio nelle nostre corde. Imbocchiamo a passo spedito la ciclabile, tutta dritta e priva di un benché minimo dislivello. Ci fanno compagnia l’erba dai colori brillanti, i canali d’irrigazione pieni di vita, la rada vegetazione a fusto alto, i campi di spighe dorate con qualche sprazzo di colore, doverosamente rosso papavero, e il verso ritmico e ipnotico delle cicale.
Attraversiamo borghi medievali con splendide vestigia di un passato architettonico fatto di ricche decorazioni e fini artifici estetici, ancora ben visibili nelle corti o abitazioni signorili restaurate. Passiamo per Malborghetto, frazione di Villa Vicentina, e tentiamo di fare uno scherzo ai nostri followers da casa, postando le foto del cartello e insinuando di aver già quasi completato il Cammino.
Alcuni di loro, quelli che hanno espresso la volontà di accompagnarci in una o più tappe del Cammino, commentano quasi delusi la nostra velocità fotonica nel portare a termine l’impresa. Noi intanto maciniamo kilometri, nonostante l’umidità che si alza dai canali e dai campi. E mentre il Sole ci omaggia dei suoi raggi, noi raggiungiamo Aiello, che secondo gli ideatori del Cammino, rappresenta la fine della prima tappa.
La frutta esposta da un negozietto lungo la via principale del centro ci fa salire l’acquolina in bocca. Acquistiamo ciliegie e due mele, chiacchieriamo un po’ coi gestori siciliani del negozio e scopriamo che non sono informati del fatto che il Cammino Celeste passa proprio accanto al loro punto vendita. Gli raccontiamo le nostre intenzioni, ci augurano buon proseguimento, anche se il loro sguardo rivela i loro reali pensieri: “queste due sono delle pazze scatenate, percorrere 200 km in neanche 7 giorni, col caldo che fa, e senza una motivazione ben precisa”. Ma i loro dubbi non ci fermano; siamo già alla ricerca del timbro da apporre sulla credenziale. Ci proviamo nella chiesa di Sant’Ulderico, ma la troviamo deserta.
Abbiamo più fortuna entrando in un’edicola poco oltre: secondo timbro guadagnato. Usciamo da Aiello, sempre a passo baldanzoso, spiluccando con gusto le ciliegie ed elencando i muscoli che inevitabilmente iniziano a farsi sentire. Lo sappiamo fin troppo bene che ogni attività fisica interessa gruppi muscolari diversi e che, nello svolgerne una non praticata da tempo, si risvegliano acciacchi e doloretti che fino ad allora pensavamo di aver risolto. A peggiorare la situazione, ci si mettono anche i tanti, tantissimi kilometri di asfalto che stiamo calpestando. Noi, abituate a sentieri sterrati, a tracce nel sottobosco, a fango, a terreni sconnessi, paghiamo con indolenzimenti e muscoli rigidi la strada finora percorsa.
Ci stupiamo non poco quando, consultando la mia app sullo smartphone che fortunatamente indica sempre la traccia giusta, ci rendiamo conto che stiamo per superare il fiume Torre, percorrendo una trafficatissima strada regionale. Il letto del fiume è assolutamente asciutto e da sopra, avvinghiate al guardrail bollente, intravvediamo un sentiero che attraversa, parallelo alla regionale, tutto il greto e la rada boscaglia che cresce lungo gli argini del fiume. Ci chiediamo perché non fosse indicata questa variante, da preferire assolutamente alla strada, in caso di fiume in secca. Ma è solo la prima volta che ce lo chiediamo; ci saranno altre occasioni in cui ci porremo la stessa domanda.
Usciamo vive, nonostante le abbondanti inalazioni dei gas di scarico del traffico stradale e il reale rischio di essere investite, dall’attraversamento del Torre e ci gettiamo, ben felici, nei campi sulla sinistra, in direzione Medea.
Nonostante la foschia dovuta all’umidità sempre presente, intravvediamo il colle con, in cima, l’inconfondibile sagoma dell’Ara Pacis Mundi. Nei pressi di Versa, un parco giochi alberato ci accoglie per il pranzo. L’ombra offerta dai castagni è corroborante ma ci procura anche il famoso “abbiocco” postprandiale. Ci facciamo forza, rimettiamo le nostre masserizie nello zainetto e salutiamo un gruppo di operai stagionali, suppongo di etnia sikh visti i copricapi caratteristici che indossano. Breve sosta alla fontana del cimitero lì accanto, a riempire borracce e a bagnarci gambe e braccia e ripartiamo. Entriamo a Medea, solitaria all’ora di pranzo, e imbocchiamo, ringraziando il nostro pesciolino, il sentiero che ci porta in cima al colle.
Ombra, finalmente ombra, ad accompagnarci lungo una scalinata di pietre che ci porta dapprima alla chiesa di Sant’Antonio e poi allo spiazzo in cima al colle.
Lassù si staglia l’Ara, imponente, a monito per le generazioni presenti e future, perché certe follie non abbiano più a ripetersi.
Ancora un fazzoletto di ombra ci accoglie per la meritata merenda; le mele acquistate ad Aiello sono deliziose. La discesa è allegra, finalmente possiamo usare le gambe e i piedi per come li abbiamo abituati: radici, terreni morbidi, qualche tratto sconnesso, curve e pendii divertenti.
L’arrivo a Cormons è motivo di euforia: abbiamo percorso quasi 36 kilometri, due tappe istituzionali, con temperature e umidità per nulla facili da gestire, siamo ancora intere, ben intenzionate e motivate. Con l’auto lasciata in centro, raggiungiamo Aquileia e ci godiamo una bibita fresca. Ci diamo appuntamento a Cividale, l’indomani mattina
E’ giovedì e il programma prevede la partenza da Cormons, la salita a Castelmonte e l’arrivo a Cividale, per la modica cifra di 37 km e 960 dsl+. Abbiamo la fortuna di vederci accompagnate da Franco, nostro fedele fan e eccelso ravanatore di sentieri impervi, e Laura, una signora conosciuta tramite l’app Blawalk, che si rivela essere una grande camminatrice sia in terra friulana che all’estero.
A Cormons tentiamo di farci apporre il terzo timbro, ma è ancora tutto chiuso; rimedieremo stasera. Già alla partenza il caldo si fa sentire, rallentando il nostro passo specie in salita. Ci godiamo il Collio, attraversandolo da Ruttars fino ad Albana.
Splendidi vigneti abbarbicati sulle colline, maestose ville in cima alle stesse, pittoresche frasche dietro quasi ogni curva ci movimentano la mattinata. Laura ha intenzione di prendere la corriera ad Albana, per tornare a Udine e completare così l’unica tratta del Cammino che ancora le mancava. Invece ci attardiamo, causa le salite improvvise, il caldo torrido e l’esigenza di scattare tante foto.
Laura perde la corriera per una manciata di minuti, ma non si demoralizza. Non ci accompagnerà oltre, preferendo farsi portare, a seconda delle disponibilità dei mezzi di fortuna, a destinazione per conto proprio. Noi invece, acceleriamo parecchio il passo perché siamo un po’ indietro sulla tabella ideale di marcia e la distanza dal traguardo odierno è ancora tanta. Saliamo attraverso il bosco e ringraziamo per ogni alito di vento che ci viene incontro.
Un enorme gelso ci invita ad approfittare delle sue more bianche. Non ce lo facciamo dire due volte: approfittando della prestanza fisica di Franco, raggiungiamo anche i rami più alti e ci rifocilliamo quasi voracemente con questo aperitivo improvvisato. La pancia non brontola più e possiamo proseguire, raggiungendo il santuario per accomodarci all’ombra, consumare il pranzo, riempire le borracce, scattare le foto di rito e farci timbrare le credenziali.
Scendiamo dal versante opposto e ci ritroviamo quasi subito a percorrere sentieri in piena battuta di sole. Da Purgessimo in poi ci tiene compagnia il Natisone; ne sentiamo la soave voce, ma soprattutto ascoltiamo le grida allegre dei bimbi intenti a farci il bagno. Un’idea malsana ci tormenta: e se ci togliessimo almeno scarpe e calzini e facessimo un tuffo rinfrescante? Invece la telefonata di Laura ci riporta alla contingente realtà: ha raggiunto Cividale a piedi (beh, complimenti) e ci sta aspettando per festeggiare il traguardo.
Acceleriamo il passo, ma un altro gelso, stavolta nero, ci fa desistere. E’ l’ora della merenda, non possiamo mica arrivare a Cividale a stomaco vuoto. Ma soprattutto, le more trangugiate in fretta e furia ci sporcano mani e viso, tanto da sembrare dei serial killers. Facciamo in tempo a darci una ripulita prima di scattare la classica foto sul ponte del Diavolo e raggiungere Laura.
Tornate a Cormons, partiamo alla ricerca del timbro. Abbiamo la solita fortuna sfacciata con una suora gentilissima che presta servizio nella chiesa di Santa Caterina. Bibita fresca in centro e rientro a casa, stanche, accaldate, impolverate ma soddisfatte: anche la seconda giornata è volata via tra risate, intermezzi divertenti e panorami da ricordare.
“Terzo giorno, finalmente si sale” è il nostro motto giornaliero. Oggi il pesciolino ci terrà compagnia fino a Montemaggiore, per quasi 38 kilometri e 1700 dsl+. I conteggi fatti a priori, avendo sotto mano tracce e altimetrie di chi ha già percorso tutto il Cammino, si riveleranno un po’ approssimativi, ma lo sapremo solo al traguardo. Intanto noi partiamo, con l’intensa speranza di abbandonare l’afa a Cividale.
Non sarà così, purtroppo. La foschia ci impedirà per gran parte della giornata di abbracciare panorami ampi o riconoscere qualche vetta delle Alpi Giulie. Intanto ci godiamo la relativa frescura dello sterrato che calpestiamo, immerse nel bosco e in leggera e costante salita.
Metà del dislivello odierno lo mettiamo in saccoccia allegramente prima di raggiungere Masarolis. Chiamiamo il numero della referente locale, addetta ai timbri.
Ci accoglie il marito presso una struttura che scopriamo essere un alloggio per viandanti saccapelisti. Ci racconta che attendono ben 6 viandanti per quella sera. Lo avvertiamo che tre pellegrine le abbiamo superate il giorno prima, poco prima della salita a Castelmonte e che, dal passo non proprio baldanzoso di una di loro, gli avevamo augurato di poter proseguire in condizioni psico fisiche migliori, magari dopo una bella dormita proprio a Masarolis.
Ci congediamo e saliamo verso il cimitero, posto lungo il Cammino, certe di trovarci una fontana con acqua fresca. Ne abbiamo appena ignorata una in pieno centro paesano, che secondo noi avrebbe erogato acqua troppo calda. Che errore: il rubinetto presso il cimitero è chiuso e, col morale decisamente abbattuto, facciamo merenda per farci forza e ci spruzziamo abbondante repellente antizecche. Stiamo per entrare nel bosco e il sentiero si stringe parecchio, costringendoci a sfiorare arbusti e erba non sfalciata. Meglio non scherzare, anche con un’eventualità remota di farci mordere da quelle bestiacce.
A Tamoris, il cui nome può essere variamente interpretato, ci accolgono ben due fontane. Acqua fresca, non ne vedevamo l’ora, con cui riempire borracce, sciacquare berretti sudati e bagnare viso, braccia e gambe.
Ora si ragiona, possiamo proseguire fino all’ora di pranzo senza temere di patire la sete. Giunte nei pressi del Pian delle Farcadizze, ci prendiamo mezz’ora per mangiare qualcosa e riposare le gambe stanche. Vediamo il lontananza Prossenicco e ci illudiamo che manchi davvero poco per raggiungerla.
Ma prima raggiungiamo il valico frontaliero di Robedischis, scendiamo lungo un sentiero piuttosto accidentato fino al ponte sul Legarda, risaliamo per la strada asfaltata il versante meridionale di Prossenicco e sbuchiamo in pieno centro paesano.
Consultando il tracciato, ci mettiamo il cuore in pace: ci sono ancora parecchi kilometri di asfalto da macinare. Uscite dal paese, attraversiamo alcuni cantieri stradali di messa in sicurezza dei versanti, che hanno subito in tempi recenti danni alla stabilità e percorribilità. Prima dell’ultima salita fino a Montemaggiore (ultima? Chi ha detto che sarebbe stata l’ultima?) ci sediamo sul ciglio della strada, a fare merenda.
Un tizio di passaggio tenta di darsi delle arie, vantandosi di aver visto l’orso, o per lo meno le sue impronte. Il mio istinto animalista ha il sopravvento, la stanchezza e la fame scompaiono e mi addentro nella boscaglia indicata dal tizio, alla ricerca di una parvenza di impronta di plantigrado. Mezz’ora di perlustrazioni e ne esco con la foto di quella che potrebbe esser l’impronta di un orso, con indosso le scarpe antinfortunistiche o le Crocs.
Intanto Cinzia mi viene incontro, temendo che magari l’orso ci fosse davvero e che avesse fatto merenda, lui con me. Costeggiamo a lungo il Nadiža (che poi diventerà il Natisone) e sentiamo forte il richiamo del tuffo non fatto il giorno prima. Tiriamo via dritte perché ormai la meta è vicina. Certo, ma prima ci troviamo dinnanzi al dilemma se imboccare la lunga forestale che, facendo un ampio arco attorno al paese di Montemaggiore, lo raggiunge da nord, oppure tuffarci nel sentiero boscoso e invitante che ci permette di accorciare parecchio la distanza ancora da percorrere. Ci troviamo d’accordo anche stavolta: che bosco sia e se non ravaniamo almeno una volta al giorno, non siamo soddisfatte.
Consulto la traccia sull’app e taccio: non serve informare Cinzia che ci attende una ripida discesa di 120 metri, fino a raggiungere il guado di un torrente (che attraversiamo, restando asciutte), che dobbiamo attraversare un ponte in pietra, che invece risulterà non transitabile perché pericolante, che dobbiamo guadare un altro torrente (stavolta io ci finisco volutamente dentro fino a metà coscia, mentre Cinzia vuole tenere le sue vesciche all’asciutto) e che dobbiamo risalire di ben 120 metri il versante sud del paese, lungo un sentiero impervio e impietoso.
A nulla aiuta il rintocco delle campane del paese: anzi. Il fatto di sentirle così vicine ci indispettisce molto, proprio perché nella fitta boscaglia non vediamo segni di civiltà. Ma anche stavolta la nostra cocciutaggine ha la meglio. Sbuchiamo a ridosso dell’auto lasciata lì stamattina e di una fontana che ci regala refrigerio e ristoro. Mentre ci cambiamo, sentiamo voci di ragazze e le scoviamo su una terrazza, poco distante. Chiediamo loro se sappiano dove far timbrare le credenziali e, con grande sorpresa di tutte noi, ci comunicano che anche loro sono viandanti – Silvia e Clara da Verona – che stanno aspettando la proprietaria del B&B presso cui dormiranno e che anche loro desiderano il timbro.
Ci viene in aiuto Atina, spumeggiante abitante di Montemaggiore (12 residenti in tutto), che ci interroga sul dove, come, quando e perché stiamo percorrendo il Cammino Celeste. Dopo le opportune e soddisfacenti risposte, Atina ci scatta alcune foto che finiranno sulla pagina FB del Cammino e ci timbra le credenziali.
La salutiamo, promettendole che l’avremmo avvertita una volta che avessimo raggiunto il santuario del Lussari. Rientriamo a casa tardissimo, ben consce che la sveglia avrebbe suonato di lì a qualche ora, ma pregustando anche l’allegra compagnia degli amici che ci avrebbero accompagnate nella giornata successiva.
La mattinata è caotica: auto da lasciare un po’ qui, un po’ lì, gente da caricare al volo, orari da far rispettare, strade da percorrere per raggiungere i vari rendez-vous. Ma anche oggi si parte con nuove energie: Carla, Elena, Patrizia e Maurizio sono i nostri portafortuna odierni. E visto che sono emozionata, imbocco la strada sbagliata fin dal principio. Torniamo presto sui nostri passi e rimediamo all’errore.
Il sentiero è gradevole, sale e scende nel bosco, il sottofondo è morbido, di aghi di conifere e foglie autunnali. Oltrepassiamo il torrente Cornappo, il cui corso ha scavato profondamente la montagna da cui nasce.
Tra Cornappo e Monteaperta raggiungiamo Silvia e Clara, le viandanti conosciute la sera prima. Ci raccontano che non saliranno al rifugio Monteaperta e che faranno la variante bassa perché, al momento di prenotare i pernottamenti, il rifugio risultava non ancora operativo. Noi invece intendiamo arrivarci per l’ora di pranzo, più o meno. Salutiamo le due ragazze e imbocchiamo la larga forestale che si addentra nel bosco.
Zigzagando a passo deciso su per il versante meridionale del Briniza, raggiungiamo, chi prima chi dopo, la croce presso sella Kriz. Soffia un venticello piuttosto fastidioso e tempo due minuti, siamo immersi in una nebbiolina appiccicaticcia.
Foto di rito e via, verso il rifugio. Non sarà proprio ora di pranzo, me è pur sempre l’occasione per mangiarsi una fetta di gubana annaffiata da grappa e per un meritato timbro sulla credenziale.
Visitiamo l’interno del rifugio, che in tempo di guerra era adibito a ricovero di retrovia per degenti provenienti dagli ospedali della prima linea. Gli interni sono caratteristici: spartani ma affascinanti, con alcuni dettagli, come l’unica camera matrimoniale, che ci sbalordiscono.
Salutiamo Cristina e Marcello, ringraziandoli di cuore per l’affetto e la dedizione che dimostrano nel gestire un rifugio così fuori dai circuiti più blasonati e frequentati. Torneremo a farvi visita, e non sono parole di circostanza. La discesa verso passo Tanamea è meno impegnativa di quanto avessi previsto. Il caldo torrido dei giorni precedenti ha asciugato il sottofondo del sentiero e non corriamo alcun pericolo di scivolare su radici o fogliamo umido.
Arrivate al Passo, assistiamo casualmente alla tosatura delle pecore: un enorme gregge di ovini belanti è diviso in due. Da una parte le pecore ancora in attesa di liberarsi del vello, dall’altra le bestiole già “denudate”. La confusione è tanta e non invidiamo nessuno di loro: né i pastori, assistenti e tosatori tantomeno le pecore.
Ci attende l’ultimo strappo, fino a casera Nischiuarch e siamo parecchio provate. Distribuisco pastiglie di sali minerali, sperando facciano effetto, almeno placebo. Il sentiero è tutto sommato gradevole, all’ombra, un po’ sale e un po’ scende, ma per alcune di noi il dislivello già accumulato nelle gambe e il caldo iniziano a pesare. Mi rallegra il fatto che alla casera incontrerò Marco M, vecchia conoscenza di sentieri montani. Purtroppo il passo della combriccola si fa più lento e arriviamo alla casera che Marco è già rientrato a casa. Ci ha lasciato però un graditissimo messaggio di augurio e il buonumore torna a serpeggiare nel gruppo.
Raggiungere l’auto lasciata a Sella Carnizza è impegnativo, anche se restiamo praticamente sempre alla stessa quota: da lontano vediamo il ghiaione, sotto al quale abbiamo parcheggiato, ma questo sembra non avvicinarsi mai. Dopo 29 km e quasi 1800 dsl dichiariamo infine la degna conclusione della giornata. Non abbiamo nemmeno occasione né tempo per festeggiare; torniamo a casa consapevoli che ormai il peggio è passato, che abbiamo superato anche questa prova e che siamo davvero fortunate ad avere amiche e amici tanto svalvolati da assecondarci nelle nostre pazzie.
E’ domenica, giornata di riposo. E noi oggi riposeremo; macinando solo 22 km e un dislivello quasi ridicolo (800 mt). Ripartiamo da Sella Carnizza, in compagnia di Patrizia e Alice e del nostro fedele pesciolino. La discesa è uno spasso, siamo al fresco, l’afa ha allentato un po’ la stretta, trovo il teschio sbiancato di un erbivoro e lo infilo a forza nello zaino, raggiungiamo il ponte sul Resia in tempi record.
Tengo informato Marco M dei nostri progressi e lo scorgo che ci attende all’entrata di Prato. Finalmente ci si rivede, se non in Nischiuarch, almeno qui. Sosta strategica al bar del paese: alcune di noi pretendono la dose quotidiana di caffeina. Entriamo nell’ufficio turistico per il nostro agognato timbro, salutiamo Marco e affrontiamo la salita fino a sella Segata a passo davvero veloce.
Raggiungiamo la chiesetta alpina e il cippo commemorativo in largo anticipo sui tempi previsti e, all’ombra della baita, consumiamo il nostro parco pranzetto. Con l’andare dei giorni mi sono stufata del sapore stucchevole delle cosiddette barrette energetiche, preferendo di gran lunga la frutta secca e fresca. Se non facesse così caldo, porterei anche qualche cubetto di formaggio vecchio, ma per ora un paio di manciate di mandorle, uva passa, noci e nocciole mi rimettono in sesto.
Il silenzio di noi quattro, che mangiamo beatamente, viene interrotto da una comitiva di “diversamente giovani” in mountainbike. Facce già viste altrove, e infatti, dopo due chiacchiere, scopriamo essere runners e tapascioni al nostro pari. Ci chiedono il nostro programma di massima e stentano a crederci quando gli raccontiamo da dove siamo partite e dove intendiamo arrivare. Si scambiano sguardi, a noi ben noti, di compassione e incredulità, ci augurano buon prosieguo e ripartono pure loro, inforcando i loro bolidi. Scendiamo dalla sella calpestando un sentiero piacevole in discesa, attraversiamo alcuni torrentelli e superiamo qualche tratto un po’ sconnesso, ma sempre sicuro.
In un attimo sbuchiamo a Raccolana, attraversiamo il Fella e imbocchiamo, per istinto, la ciclabile che corre parallela alla Pontebbana. Da un po’ non vediamo più cartelli indicanti il Cammino, il pesciolino sembra scomparso. La ciclabile è lunga e il clima torrido, non si percepisce un alito di vento.
Solo le gallerie offrono qualche momento di refrigerio, per il resto ci importa solo arrivare in fretta a Dogna. Dei tanti ciclisti che incrociamo, ben pochi ci salutano. I più amichevoli sono gli austriaci, che agitano le mani e ci urlano degli allegri “Tsciau”.
Rivedo il pesciolino poco prima di attraversare il torrente Dogna. Scendiamo a destra, imbocchiamo la passerella che raffigura la tastiera di un pianoforte, raggiungiamo il centro del paese che non sono nemmeno le 14,00.
Ci cambiamo con calma, approfittando della quiete domenicale e della poca acqua che scorre dalla fontana lì accanto.
Rientrando verso casa, ci fermiamo a Resiutta a festeggiare il traguardo di questa giornata. E abbiamo pure il tempo per chiacchierare di figli, progetti futuri, esperienze passate. Il Cammino fa anche questo: veicola, fa incontrare, instilla pensieri, alimenta la stima reciproca.
Di sera, dopo una doccia rigenerante, consulto il descrittivo contenuto nella guida acquistata anni fa, quando il pensiero del Cammino celeste mi aveva stuzzicato per la prima volta. Leggo con disappunto che il Cammino, nel tratto da Raccolana a Dogna, prevede il transito dei viandanti lunga la trafficatissima Pontebbana, mentre a pochi metri di distanza scorre la ciclabile Alpe-Adria. Per fortuna il buon senso ci ha salvate da questo ennesimo pericolo.
E già che sto sfogliando la guida, azzardo una lettura attenta del tracciato che percorreremo l’indomani, da Dogna a Valbruna. Tento disperatamente di scovare un’alternativa ai primi 17 km di asfalto che ci attendono. Spulcio la mia fidata app, trovo il sentiero naturalistico Umberto Pacifico, che scorre parallelo alla strada, sul versante opposto, ma dopo due minuti abbandono questa pia illusione. Il sentiero è dismesso da anni e sicuramente la neve caduta in inverno non ne avrà migliorato la percorribilità. Mi addormento leggermente contraddetta, in attesa che la sveglia mi porti alla triste realtà.
Mentre parcheggiamo un’auto a Valbruna, illustro il programma di massima a Cinzia. Oggi siamo sole, coi nostri pensieri, la stanchezza e la desolante certezza che la strada da percorrere (28 km e 1300 dsl+) sarà quasi tutto di asfalto. Partiamo da Dogna con passo molto veloce: se asfalto dev’essere almeno approfittiamone per procedere spedite.
Alle 7.30 siamo già giunte al cantiere istituito per migliorare la viabilità dell’unica arteria stradale che collega le varie frazioni della val Dogna al capoluogo del comune. Nomi come Chiout di Pupe, Chiout di Gus, Chiout Zuquin si susseguono, testimoniando la presenza umana anche in queste terre tagliate fuori dal cosiddetto mondo civile.
Notiamo che la zona è un bacino idrico notevole: torrentelli, cascate, fontane, pareti intrise e gocciolanti di acqua. Insomma, nonostante non piova da giorni e il caldo, che non ha allentato la presa un attimo, qui l’acqua non manca davvero.
Poco oltre Chiout Zuquin la sento scorrere, ma il rumore che produce mi lascia interdetta. Mi avvicino al tubo che fuoriesce dal manto stradale e che riversa acqua in un lavatoio poco più in basso. Aggiro la siepe che lo nasconde e mi trovo davanti a un vascone di cemento pieno di lattine di birra, bottigliette di acqua e bottiglie di prosecco, tutte galleggianti in superficie o immerse sul fondo.
Infilo un braccio per tirare in secco una bottiglia di prosecco, poi afferro una bottiglietta di acqua e finisco l’opera di recupero con una lattina di birra. Lancio una rapida occhiata a Cinzia che ha lo sguardo fisso sul prosecco. “No dai, il prosecco no, ma una lattina di birra… ce ne sono talmente tante, nessuno si accorgerà che ne manca una. E poi, noi restituiamo alla natura ciò che la natura ci dona.” Rimetto il prosecco e la bottiglietta nel vascone e raggiungo Cinzia con una lattina di birra gelata in mano.
Ce la diamo a gambe, anche perché nella casa accanto, potrebbe benissimo dormire il legittimo proprietario della birra. Alle 10 si fa merenda, vero? E noi approfittiamo di un’altra casa isolata lungo la strada per dividere equamente la birra e riempire lo stomaco con un po’ di cibo solido. Assumere alcool a stomaco vuoto, anche se è solo birra, non è una buona idea, specie se devi percorrere ancora 10 kilometri sotto al sole. Però ci mette allegria e per mezz’ora abbondante ridiamo per ogni stupidaggine detta e per ogni inezia vista. Degna di nota, e lo dico da sobria, la linea dei Plans, con le numerose fortificazioni della prima guerra mondiale.
Già a partire da Dogna avevamo notato e letto la cartellonistica dedicata al recupero e valorizzazione del patrimonio storico e culturale dei siti legati alla prima guerra mondiale. Foto storiche, didascalie precise e informazioni interessanti ci inducono a prenderci qualche attimo di sosta, mentre tentiamo di immaginarci la vallata sconvolta dalle dirette in indirette conseguenze del conflitto. Ci meravigliamo di quanto l’uomo si sia sforzato a costruire strutture e infrastrutture, di cui ora restano null’altro che ruderi, per combattere e uccidere altri uomini, intenti nello stesso sforzo sul versante opposto.
Finalmente la foschia ha deciso di alzarsi un po’ e ci permette magnanima di abbracciare con lo sguardo gruppi montuosi più o meno noti. C’è il Cimone, col suo inconfondibile profilo da panettone. Più avanti ci attendono il Montasio e lo Jôf di Miezegnot.
Ma prima raggiungiamo Pian dei Spadovai, dove cerchiamo un’anima pia che ci timbri le credenziali. Sentiamo movimenti sul retro del ristorante Due Pizzi: un signore in abiti da lavoro sta spostando assi di legno. Lo disturbiamo sfacciate e gli chiediamo se abbia l’ambito timbro. Ci invita a raggiungerlo all’interno del ristorante e, mentre noi entriamo dall’ingresso principale, lui ha la delicatezza di indossare una camicia pulita: rispetto e pudore di altri tempi.
Riconosciamo al volo la grinta e la compostezza che animano il signore; scambiandoci due parole in friulano, ci fa intendere che restare quassù non ha alcun ritorno economico, che lui lo fa per passione. E la notiamo dappertutto, nelle assi che formano la ringhiera, intagliate e levigate a suon di olio di gomito, nelle sculture di legno disseminate ovunque, nelle tendine che decorano le finestre della sala pranzo. Lo salutiamo, ringraziandolo per la gentilezza e gli promettiamo che torneremo.
Riprendiamo il nostro asfalto, sostiamo brevemente presso la chiesetta alpina del battaglione Gemona e affrontiamo i tornanti in cemento che ci portano fino alla sella Somdogna.
La temperatura si è abbassata decisamente e soffia un venticello a tratti stizzoso. Finalmente calpestiamo sentiero, anche se sappiamo già che sarà un sollievo breve. Raggiungiamo il rifugio Grego mentre dal Montasio spuntano nuvoloni grigi e carichi di pioggia.
Il vento si è ingrossato e decidiamo di pranzare lontane dal rifugio, scendendo di alcuni metri lungo il sentiero che si addentra nel bosco, al riparo dalle folate più forti. Le nubi alle nostre spalle ci spingono a riprendere il sentiero in fretta e raggiungiamo rapidamente la polveriera e la sua fontana dove, già in altre occasioni, ci siamo rinfrescate. Non manchiamo di farlo nemmeno stavolta, anche perché l’afa a fondovalle è tornata a farsi sentire.
Per raggiungere Valbruna dobbiamo percorrere tutta la Val Saisera e facciamo del nostro meglio per evitare altro asfalto. Imbocchiamo sterrati a destra e sinistra della strada turistica, pur di godere ancora di qualche minuto di ombra e refrigerio offerti dalla boscaglia.
Oltrepassato il cimitero militare austro-ungarico, in brevissimo tempo giungiamo all’auto lasciata nei pressi della pasticceria “I Dolci di Irma”. E’ lunedì e la pasticceria è chiusa, altrimenti una golosa fetta di torta e un bicchiere di succo di frutta avrebbero concluso degnamente questa giornata di “passione”. Rientriamo prestissimo, in largo anticipo sulla tabella di marcia e scorriamo euforiche l’elenco delle amiche e amici che ci accompagneranno l’indomani nell’ultima giornata di questa avventura.
Il ritrovo è, come sempre, all’alba; alle 7,00 siamo già a Valbruna, ci accertiamo che al rientro Irma sia aperta e partiamo numerose, allegre e a passo molto spedito per raggiungere il santuario in cima al monte Lussari. Con noi ci sono, in ordine alfabetico: Alice, Carla, Elena, Franco e Marco. Alcuni di loro ci hanno già accompagnate nei giorni precedenti, altri hanno chiesto addirittura ferie per poterci essere, con noi, a mettere il sigillo su questa impresa.
Stranamente, né io né Cinzia siamo affaticate: l’ultimo sforzo ci appare quasi gradito, al pari di un compagno silenzioso di tante distanze percorse, tanti luoghi visti, tante emozioni provate. Raccontiamo ai nostri accompagnatori i 190 km che ci hanno portati fin quassù, gli incontri fatti, i panorami visti e quelli solo immaginati, le nostre impressioni a caldo.
Il meteo è clemente, soffia una brezza gradevole e anche la foschia ha allentato la presa. Nuvolette sparse si alternano ai raggi del Sole, permettendoci di salire senza troppa fatica. Finalmente possiamo anche godere di ampi panorami: le creste dei “nostri” monti sono nitide e sembrano salutare il nostro ritorno a casa e la natura incornicia baldanzosa gli scorci che le Alpi ci offrono.
Arriviamo in cima, quella con la croce, molto presto e ci permettiamo di scattare foto di rito, foto goliardiche, foto panoramiche.
La merenda sul retro del santuario è d’obbligo e lo è anche la caccia all’ultimo timbro sulla credenziale. Troviamo il santuario aperto e lo visitiamo in silenzio.
Come tutte le altre strutture religiose incontrate lungo il Cammino, anche questa sfoggia opere d’arte e decorazioni davvero notevoli. Sventoliamo entusiaste le nostre credenziali ormai piene di timbri, a testimoniare la nostra ostinazione e perseveranza, ma anche la grande fortuna che ci ha permesso di completare il Cammino senza alcun intoppo oggettivo, problema fisico o défaillance organizzativa.
Ridiscendiamo lungo il “sentiero del Pellegrino” quasi correndo, imboccando scorciatoie e tagliando tornanti perché, arrivate a questo punto, ci stiamo già pregustando il cambio di abiti puliti e profumati, i sandali ariosi e liberatori, le torte della Irma e lo spensierato brindisi con cui intendiamo festeggiare la conclusione del Cammino Celeste all’ora di pranzo.
Mentre affondiamo con appetito le forchette nelle rispettive fette di dolce e sorseggiamo i freschi succhi di frutta proposti dalla pasticceria, tiriamo le somme e le commentiamo, coi nostri metri di valutazione: 206 km e 7700 dsl+ complessivi in sette giorni scarsi. Rapidamente calcoliamo anche la quantità di asfalto calpestato; tantissimo, specie confrontandoli con altri cammini percorsi, friulani e non. Ripensiamo alla segnaletica e dobbiamo ammettere che, almeno fino in Val Resia, i pesciolini azzurri ci hanno tenuto compagnia, rassicurandoci abbondantemente.
Avendo percorso in lungo e in largo le nostre Alpi e Prealpi Carniche e Giulie, ci chiediamo il perché questo Cammino sia stato pensato proprio in questo modo. Giustamente, un cammino deve permettere l’accesso al più ampio spettro di pellegrini o viandanti che intendano intraprenderlo. Noi, purtroppo, lo giudichiamo coi nostri parametri di camminatrici un po’ folli, compulsive ed estreme e avremmo preferito poter scegliere alternative meno “facilmente accessibili a chiunque”.
In compenso abbiamo provato ad immedesimarci nei panni di un pellegrino, di età, estrazione sociale e cultura variamente assortita, che sente forte il richiamo del Cammino, che vuole percorrerlo per conoscere luoghi e genti nuove. Il Cammino Celeste di sicuro non lo lascerà insoddisfatto: si può partire da Grado, dove l’influenza veneta è ancora ben radicata, sia come inflessioni dialettali che come influenze architettoniche; si attraversa Aquileia, colonia romana alla sua fondazione, sede del patriarcato omonimo poi; ci si inerpica sul colle di Medea a rendere omaggio a tutti coloro che sono stati travolti dalla follia umana; si raggiunge il Collio, che testimonia la forte influenza delle popolazioni slave confinanti; si percorre il centro cittadino di Cividale, dove sono ben visibili le vestigia delle presenze romane e longobarde; si scavalca Castelmonte per ribadire la fede cattolica del Friuli; si sbuca in val Resia, enclave unica al mondo per tradizioni e lingua, custodite giustamente con cura e gelosia dai suoi abitanti; si sfiora giusto un attimo la Carnia, che come “carattere” non ha nulla da invidiare ad altre zone montane friulane; si compie un ultimo sforzo, che sia fisico o di fede, per visitare un luogo riconosciuto ampiamente come confluenza pacifica di tre nazioni, dei loro popoli, lingue e tradizioni.
Noi serberemo nei nostri cuori tutte queste atmosfere, suoni e sapori antichi, riflessi di anime passate e presenti, luoghi carichi di dolore e fatica, ma anche di allegria e festose compagnie.
Quello che ci sentiamo di poter consigliare a chi gestisce, manutenta, e promuove il Cammino Celeste è di verificare e aggiornare con attenzione e tempismo le criticità, che inevitabilmente ci sono lungo ben 200 km di tracciati, sui vari canali di comunicazione dedicati al Cammino. Di implementare la segnaletica, specie nelle zone montane o non coperte da gestori di telefonia cellulare: i “comfort signs” sono sempre un toccasana, meglio se abbondano. Di tastare il terreno presso gli enti preposti, per promuovere la sistemazione e fruizione di sentieri che offrano un’alternativa al solo e puro asfalto. Di incentivare i residenti dei luoghi attraversati dal Cammino a conoscerlo e farlo conoscere, a diventare loro stessi promotori, fruitori e curatori del Cammino.
A tutte le persone curiose, volitive, avventurose e determinate a percorrere il cammino Celeste auguriamo Buoni Passi. Non vi mancheranno nuove emozioni, parole e pensieri, riflessioni e conoscenze. E a noi stesse auguriamo di incontrarvi, qui o altrove.