Lusevera, il fuoco

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Il fuoco l’accendevano con l’acciarino (ndr: strumento di ferro che, battuto di taglio su una pietra focaia, ne trae scintille per accendere il fuoco) e foglie secche, spesse volte anche al tempo in cui esistevano i fiammiferi.
Una volta acceso non lo lasciavano spegnere più.

Come? Alla sera, quando andavano a letto, radunavano sul focolare tutte le bragie (“sariaveze”) sparse intorno e con molta cenere, in modo che l’aria non potesse filtrare da nessuna parte.
Chiuso così, il legno ardeva adagio adagio ed al mattino, sotto la cenere, la massaia trovava il legno ridotto a brace, che sparpagliava e copriva con un po’ di stoppie e legna minuta: ecco fatto!

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Le donne si alzavano presto al mattino e si coricavano tardissimo la sera, passando le serate a far calze, a filare, a cucire suole o pantofole, al lume della “luc”, primo antichissimo mezzo di illuminazione dell’Alta Val Torre.

La luc era un bastoncino lungo circa 10-12 cm ricavato dalle radici del larice essiccate e stagionate, poi ridotte in fuscelli del diametro di 4-5 cm.
Questi fuscelli venivano infilati nel muro delle pareti fra un sasso e l’altro, venivano accesi in punta, con un tizzoncino preso dal fuoco. La luc ardeva adagio e bene, come una candelina.

Più tardi, quando poterono provvedersi l’olio, la luc fu sostituita dal “lumin” a olio. Era questo un ciocchetto di 10x10x4 cm. Nel centro era scavato per una profondità di 3 cm ed aveva un orlo di 1 cm, altezza naturalmente di 3 cm, la profondità dello scavo.
In un angolo, dall’alto, veniva praticato, col trivellino, un foro del diametro di 5-6 mm, che si foderava con la latta. Per questo foro si infilava, dall’alto, uno stoppino abbastanza lungo (di canapa o cotone), che andava ad immergersi nell’olio, uscendo dall’angolo solo con la punta che veniva accesa.

Durò in uso finché fu sostituito da lampade ad olio e più tardi dalla lampada a petrolio.
ᵀʳᵃᵗᵗᵒ ᵈᵃ ᵘⁿᵃ ᵈⁱᵈᵃˢᶜᵃˡⁱᵃ ᵖʳᵉˢᵉⁿᵗᵉ ⁿᵉˡ ᵐᵘˢᵉᵒ ᵉᵗⁿᵒᵍʳᵃᶠⁱᶜᵒ ᵈⁱ ᴸᵘˢᵉᵛᵉʳᵃ ⁽ᵁᵈ⁾
ᶠᵒᵗᵒ: ʷᵉᵇ