La Banaanaaa

𝐋𝐨 𝐬𝐚𝐩𝐞𝐯𝐢 𝐜𝐡𝐞?
Oggi vi racconto la vita di una 𝘽𝙖𝙣𝙖𝙣𝙖 𝘿𝙬𝙖𝙧𝙛 𝘾𝙖𝙫𝙚𝙣𝙙𝙞𝙨𝙝.

Metto le mani avanti: non è terrorismo socio-alimentare, ma corretta e consapevole informazione, infarcita giusto un pochino di etica e sostenibilità.

La banana, come frutto selvatico, è la bacca della pianta del banano, originario dei paesi con clima tropicale nel Sud-Est Asiatico – Malesia, Indonesia e Filippine – e ha l’aspetto della foto qui sotto. La varietà commercializzata in tutto il mondo e che rappresenta praticamente il 99% delle banane nei reparti frutta, è la Cavendish: da 15 a 25 cm di lunghezza, buccia sottile, liscia e uniformemente gialla, assenza di semi, polpa compatta e dolce. Nulla a che vedere con le banane selvatiche, che possono essere lunghe o tozze, curve o dritte, dure o morbide, verdi, gialle, rosse, arancioni, persino bluastre.

Torniamo alla Cavendish.

Quella che attraversa mezzo globo proviene quasi tutta dall’America Latina, coltivata su terreni amplissimi, deforestati, sottratti illegalmente ai piccoli proprietari terrieri o mezzadri (o, peggio ancora, espropriati con la violenza alle popolazioni indigene impotenti), imbottiti di fertilizzanti chimici, fungicidi e pesticidi. Forma una monocoltura allineata con i dettami della globalizzazione: non ha stagionalità, prevede enormi quantità di frutta prodotta e sopporta viaggi intercontinentali per soddisfare il nostro palato. Il consumo medio in Italia è calcolato in 60 frutti pro capite annui.

Ogni casco di banane può pesare 40 kg e viene raccolto da braccianti sottopagati e che operano in condizioni a dir poco disumane. Le bacche hanno raggiunto le dimensioni desiderate ma sono molto “immature”, verdi, acerbe. Vengono grossolanamente lavate e subito ‘insacchettate’, per evitare che gli insetti le pungano. Oppure cosparse di varie sostanze anticrittogamiche e magari anche conservanti.

Viaggiano poi in camion refrigerati (tutti in classe Euro 5, immagino) dal punto di raccolta e smistamento fino a un porto commerciale. Da lì, imbarcate su enormi navi frigo a temperatura costante di 13°C (sorvolo sull’enorme dispendio energetico), viaggiano per miglia e settimane. Raggiunto il porto di destinazione, le banane intraprendono il loro penultimo viaggio continentale: dalla nave al supermercato.

Altri chilometri macinati, sempre su veicoli a emissioni zero (notare il sarcasmo). Infine vengono cosparse di etilene, gas inodore e incolore che ne induce la maturazione. Eh sì, le banane possono maturare solo una volta raggiunto il reparto frutta e verdura del nostro supermercato. Le macchioline nere, che compaiono sulla buccia, ne denotano il grado ottimale di maturazione, ma guai se appaiono troppo presto.

Potrebbero non ultimare il loro peregrinare per il globo e non approdare mai sulle nostre tavole. Il 35% delle banane raccolte a qualche migliaio di chilometri da casa nostra, viene gettato come rifiuto organico, perché “brutto” e non più appetibile.

Come guida ambientale, insisto a porre l’accento sulla raccolta differenziata: la buccia di banana si decompone, certo. Ma ci mette qualche mese (considerati i conservanti spruzzati sulla buccia) e intanto gli escursionisti trovano cumuli di bucce sui sentieri. E decomponendosi, rilascia tutti gli additivi chimici con cui è stata trattata. Può andare solo peggio nel caso che un animale selvatico la mangi; allora può sopraggiungere anche una intossicazione alimentare a cui la povera bestia non conosce rimedi.

Ma non disperiamo: col cambiamento climatico in atto, tra pochi anni coltiveremo le banane anche in Italia.

ᶠᵒᵗᵒ ⁽ᵂⁱᵏⁱᵖᵉᵈⁱᵃ⁾: ᵂᵃʳᵘᵗ ᴿᵒᵒⁿᵍᵘᵗʰᵃⁱ ⁻ ᴼᵖᵉʳᵃ ᵖʳᵒᵖʳⁱᵃ, ᶜᶜ ᴮʸ⁻ˢᴬ ³.⁰, ʰᵗᵗᵖˢ://ᶜᵒᵐᵐᵒⁿˢ.ʷⁱᵏⁱᵐᵉᵈⁱᵃ.ᵒʳᵍ/ʷ/ⁱⁿᵈᵉˣ.ᵖʰᵖ?ᶜᵘʳⁱᵈ⁼¹⁸⁶⁷⁸⁷⁹

La banana