Ci sono ricascata: tra agosto e settembre 2021 ho ripercorso la Traversata Carnica, più che altro per riportare alla memoria le emozioni provate durante la prima esperienza. Mi è servita anche per rendermi conto della portata dell’impresa compiuta nel 2019, per poter raccontare con mente più lucida e pragmatica i vari aspetti dell’avventura alle amiche che, mesi fa, hanno lanciato l’idea di una nostra partecipazione alla prossima edizione della 177k.
Ma partiamo dall’inizio, dalla 177k, insomma. Vi rimando all’articolo scritto alcuni mesi dopo aver partecipato alla manifestazione: www.tangia.it/la-mia-177k/. Non nego che la fatica provata fosse tanta, ma, dopo tutti i mesi di allenamento svolti correndo su e giù per la Carnia, la “gara” ha rappresentato la ciliegina sulla torta di una sfida molto goliardica.
Però quando amici e conoscenti mi chiedevano foto o suggestioni raccolte durante i tanti kilometri, mi trovavo a dovermi giustificare per l’assenza di immagini o ricordi indelebili nella mente. Abbiamo corso talmente tanto, con lo sguardo fisso sui piedi per evitare intoppi, oppure consultando le mappe per non sbagliare traccia, che dei panorami ampi e scorci mozzafiato delle nostre Alpi serbavo solo 5 scatti e ben poche parole per descriverli.
Terminato il lockdown dovuto alla pandemia, ho colto ogni occasione utile per tornare in montagna, nei luoghi dove ritrovare il mio equilibrio e serenità. Mi sono ritrovata a osservare cartelli segnavia, in territorio austriaco, sui cui campeggiava la scritta KHW403 e avere la sensazione di essere già passata di lì. Non credo ai déjà-vu, piuttosto mi affido ai mezzi che la tecnologia mi offre. Ed eccomi posizionata sulla traccia virtuale usata durante la 177k, a fare mente locale su come ci si possa scordare di paesaggi così emozionanti. In altre occasioni ripercorro volutamente tratti della Traversata, in compagnia di amici, sulla mia stessa lunghezza d’onda, che ne apprezzano la varietà di ambienti e la loro bellezza.
Scaturisce un abbozzo di progetto malsano: e se ripercorressimo tutta la Traversata, da San Candido / Innichen fino a Coccau, ma a modo nostro? Un modo che ci permetta di abbracciare consapevolmente tutti gli elementi in cui siamo pronti a ri-immergerci; di rivivere l’adrenalina dell’impresa, ma senza l’assillo della prestazione o del regolamento; di sbagliare traccia, allungarla per sbirciare angoli nuovi, accorciarla per risparmiare un po’ di energie, fermarci a immortalare quello che ci circonda.
Il progetto viene condiviso fin da subito da alcune amiche, Cinzia e Marina (che però dovrà a malincuore abbandonare il progetto). Ma prende decisamente forma quando scopriamo che anche Franco, altro reduce della 177k del 2019, si dice pronto a parteciparci fattivamente. Franco si incarica di rivedere la traccia della gara, aggiustandola e adattandola alle nostre esigenze: non abbiamo alcuna intenzione di riposare le stanche membra in tende e sacchi a pelo ogni notte più umidi. Stavolta dormiremo in rifugi, godendo della mezza pensione, perché siamo sì ostinati e intraprendenti, ma un minimo di comfort lo pretendiamo, alla nostra tenera età.
Cinzia ci toglie dall’imbarazzo di una Traversata condensata in una 6-giorni ininterrotta. Impegni lavorativi e famigliari ci obbligano a dividere i quasi 200 km in due tranche, e di occupare due weekend lunghi per percorrerli tutti. Optiamo per il periodo di fine estate, confidando in un meteo non troppo avverso. Il caldo dovrebbe essere meno asfissiante e forse riusciremo a scansare pure la pioggia diurna.
Prenotare i pernotti resta l’ultimo scoglio da superare. A dare ragione ad alcuni rifugisti, sembra che le Alpi Carniche siano prese d’assalto da camminatori seriali. Rivediamo più volte il kilometraggio delle 6 tappe, in base alle disponibilità dei posti letto. Siamo flessibili e anche vagamente incoscienti, ma vorremmo partire con la certezza di non dover dormire in un ricovero di fortuna. L’insistenza paga e prenotiamo presso la Filmoorhütte, la Hochweißsteinhaus, il Cason di Lanza e il rifugio Nordio-Deffar. In mezzo ci attende il passo di Monte Croce Carnico, dove un parente verrà a recuperarci per spezzare il cammino.
Definiti i particolari logistici, ci dedichiamo anima e corpo alla preparazione atletica. Ripercorriamo moltissimi kilometri del sentiero CAI403, tentiamo di capire difficoltà e intoppi che possano presentarsi, ma anche di ingolosirci in previsione del nostro secondo passaggio, di lì a poco. E poi c’è lo zaino da organizzare e riempire; altra novità da affrontare, rispetto alla gara. Durante la 177k ci siamo portati davvero il minimo indispensabile, a volte nemmeno quello: acqua, cibo (poco), pochissimo abbigliamento integrativo, i minimi dispositivi di sicurezza imposti dal regolamento.
Stavolta dobbiamo ripensare contenuti e volumi, considerando anche le norme anti-covid vigenti nei rifugi. Sacco a pelo e asciugamano, sembra di no, ma occupano parecchio spazio. Si va per eliminazione, non possiamo permetterci più di 35 lt. e 9 kg. di zaino. La sera prima della partenza ci scambiamo le ultime impressioni, i dubbi e le foto dei display delle bilance. Nel nostro piccolo siamo soddisfatti di come abbiamo organizzato, gestito e preparato l’impresa e ci diamo l’appuntamento all’alba dell’indomani.
Abbiamo bisogno dei nostri famigliari non solo per la silenziosa e, a volte, rassegnata sopportazione. Ci servono anche, e sono preziosi collaboratori, per compiti prettamente logistici: mio figlio Lorenzo acconsente a trasportarci a San Candido / Innichen, partendo dal Friuli a notte fonda. Colazione tutti assieme in centro al paese, nel bar dove facemmo colazione due anni prima. Io e Franco snoccioliamo ricordi, Cinzia ascolta tentando di farsi un’idea dell’avventura in cui si è imbarcata.

All’imbocco del sentiero sterrato che ci porterà sul monte Elmo, salutiamo Lorenzo, la cui espressione rivela un misto di benevola indulgenza e di “ma chi ve lo fa fare?”. L’aria è frizzante e ci fa ben sperare: non moriremo di caldo, almeno per alcune ore. La traccia scaricata da Franco ripercorre in parte il sentiero CAI403 (oppure, per par condicio, il Karnischer Höhenweg KHW403), quelli percorsi in occasione della 177k e quelli suggeritigli da un amico, l'”omino delle vette”. Lo soprannominiamo così fin dai primi kilometri, quando ci accorgiamo che i suoi file di tracciamento percorrono inflessibili tutti i crinali, le vette e le cime possibili. Strada facendo, avremo modo più volte di optare per le varianti “basse”, più tranquille e meno adrenaliniche.
Percorrendo il “Besinnungsweg / Sentiero della meditazione” incontriamo un turista fiorentino che si offre di accompagnarci fino al rifugio Gallo Cedrone. Lui viaggia leggero, un k-way e una bottiglietta di acqua, e ci precede con facilità. I nostri zaini iniziano a pesare, ci impegniamo a trovare la posizione più confortevole, aggiustare cinghie e passanti, ridistribuire carichi.

Il fiorentino mi fa una serie di appunti: bisogna studiare i sentieri a memoria, lasciar stare cellulari e app di trekking, sapersi orientare a occhio. Ha ragione, tutto sommato, ma stiamo pur sempre parlando di 200 km e la segnaletica non è sempre chiara e univoca. Lo lasciamo volentieri ai suoi rimproveri, noi rallentiamo un po’ e raggiungiamo la Jagdhütte. Da lì, in breve tempo arriviamo al rifugio Gallo Cedrone e assistiamo allibiti all’invasione di gitanti del sabato. Per riprendere coraggio e forza, facciamo un breve spuntino, prima di affrontare la folla chiassosa e la salita al monte Elmo.

La traccia dell’omino delle vette ci manda fino in cima; noi invece decidiamo di comune accordo di imboccare il sentiero che prosegue sì in quota, ma senza aggiungere altro dislivello. In breve arriviamo alla Sillianerhütte, da dove intravvediamo il sentiero che sale da Sillian / Arnbach e che, finalmente, riporta il numero 403 sui segnavia. “D’ora in poi, sbagliare sentiero sarà davvero difficile” Eh, le ultime parole famose.

Dal versante austriaco iniziano a salire nubi, dapprima sottili e lievi. Riusciamo ancora a vedere chiaramente la prossima meta: il crinale rude delle cime Muta / Valbella / montagna del Ferro. La temperatura è scesa parecchio e soffia un vento frizzante, che favorisce il sopraggiungere di altre nubi dal fondovalle austriaco, meno innocue. Inizia il balletto del cambio di abbigliamento: tempo mezz’ora indossiamo, togliamo, rindossiamo, aggiungiamo, togliamo capi tecnici.

La prima grandinata, fitta fitta ma fina fina, ci coglie impreparati e increduli presso sella Nemes. Dei turisti austriaci si fanno beffe di noi, perché indossiamo pantaloncini corti. Gli rispondo in tedesco che noi italiani austeri indossiamo pantaloncini corti anche con mezzo metro di neve. Ci copriamo col poncho, tentando invano di proteggerci dalle fortissime raffiche di vento che ci frustano con temperature gelide e grandine orizzontale. Proseguiamo per non dargliela vinta agli austriaci e saliamo verso la Muta (Demut in tedesco, un nome che è tutto un programma) lungo il sentiero ormai bianco di grandine.

Le nubi cariche si allontanano così come si sono presentate. Noi ci adattiamo, con l’ennesimo cambio di abbigliamento, alle nuove condizioni meteo. Ma per poco. Raggiungiamo il passaggio cima Valbella mentre torna a grandinare. Fa davvero freddo, ma noi ostinatamente perseveriamo. D’altronde non è che abbiamo molte alternative: le trincee che corrono tristemente lungo il crinale non offrono alcun riparo. Quando mi rendo conto che le mani sono ormai violacee, mi arrendo all’evidenza che indossare guanti di lana ad agosto non è poi un’eresia. Attendo i miei due compagni di disavventura, li avverto che avrei accelerato l’andatura per oltrepassare il crinale e rendermi conto di cosa ci avrebbe atteso “di là”.

Incontro tre montanari austriaci, vestiti come se stessero andando a visitare Babbo Natale, gli chiedo come sia il meteo sull’altro versante, mi rispondono sconsolati: “pure peggio”. Inizio a preoccuparmi seriamente, consulto il tracciato sul cellulare (coi guanti indossati anche le dita hanno ricominciato a funzionare) e mi rendo conto che la Obstanserseehütte è ancora lontanissima. Raggiungerla in queste condizioni sarà difficile, pesante, rischioso. Il sentiero è praticamente una lastra di ghiaccio e ogni passo dev’essere ponderato. Continuano le raffiche di vento e anche la grandine cade incessante.

Scollino, temendo il peggio. E invece compare il versante verde, rigoglioso e beneaugurante che ci condurrà all’Obstansersee. Torno sui miei passi per portare la lieta novella a Franco e Cinzia. Ci voltiamo indietro e ammiriamo lo spettacolo offertoci dal tratto di cresta appena percorso, completamente imbiancato, e nuovamente illuminato dal Sole. Ci togliamo volentieri poncho, piumino e guanti, mentre scendiamo allegri e baldanzosi verso il lago.

Franco ed io abbiamo ben impressa nella memoria la sfacchinata che ci attende di lì a poco e la annunciamo all’ignara Cinzia: il ghiaione ripido del Rosskopftörl e, come se non bastasse, la discesa dissestata fino al fondovalle. Ma qualcosa non torna con la traccia dell’omino delle vette. Ci manderebbe in cresta, sulle cime del Kinigat / Cavallino. Invece noi ci ricordiamo fin troppo bene il dislivello negativo, preludio dell’ultima salita fino alla Filmoorhütte, affrontato durante la 177k. Viste le condizioni meteo contingenti, decidiamo di snobbare il sentiero di cresta.

Il pomeriggio ormai è inoltrato e la segnaletica rivela che ci vorranno altre due ore per arrivare alla nostra meta. Nubi nere si addensano tra le cime e la temperatura torna a scendere. Dopo breve consulto, decidiamo che allungherò di nuovo il passo, per raggiungere il rifugio al più presto possibile. Il timore di trovare i nostri posti letto occupati è troppo forte. Risalgo col fiatone i tornanti erbosi prima, ghiaiosi più avanti. Un ungulato infastidito si fa vivo in mezzo alla vegetazione, facendo ruzzolare sul sentiero un tronco marcio. Sono preceduta da un gregge chiassoso di pecore che risale il sentiero. Mentre loro svaniscono dopo aver scollinato, torna a grandinare. Mi volto a cercare i due compagni, ma non li vedo. Indosso di nuovo il poncho, anche se contro la grandine non è di grande protezione.

Quando sono in vista del rifugio la grandine si trasforma in neve: fiocchi enormi, fitti, svolazzanti. Mi godo questa meraviglia della natura: la neve ad agosto mi mancava. Entro nel rifugio e il tepore mi accoglie benevolo. Su indicazioni del gestore, mi sistemo nel dormitorio. Approfitto dell’anticipo sui miei due compagni per preparare il letto, cambiarmi d’abito e darmi una pulita. Finalmente li vedo arrivare, o meglio, vedo due poncho, uno viola e uno giallo canarino, comparire sulla sella. Ha smesso di nevicare e loro se la sono persa. Mi spiace tantissimo però sono anche sollevata nel vederli giunti al traguardo sani e salvi.
Cinzia accenna a un dolore al tendine di Achille, incolpando il fatto di aver camminato per ore in scarpe zuppe. Domani andrà meglio, ma nessuno di noi ha il coraggio di consultare le previsioni meteo. Dividiamo il dormitorio con altri due escursionisti austriaci, di poche parole. Ceniamo finalmente, le porzioni sono abbondanti e il locale è piacevolmente caldo. Ci rilassiamo tra due chiacchiere coi gestori e reminiscenze di un passato non troppo lontano. Sia io che Franco ci ricordavamo della fontana lignea, posta nei pressi del rifugio, stracolma di lattine di birra, radler e acqua minerale. Ritrovarla lì è stato confortante, segno che la memoria regge e che la prima tappa è fatta.

Ci infiliamo nei sacchi a pelo relativamente presto, stanchi, soddisfatti e rifocillati. La notte trascorre placida, quasi ovattata. Al sorgere del Sole ci alziamo e non riusciamo a credere ai nostri occhi: le tavolate e panche esterne, come anche il tetto del rifugio sono coperti da 5 cm. di soffice e candida neve. Scatta la frenesia per toccare con mano il fenomeno, emozionati come dei bambini. “Foto, foto, fai foto chè poi le mandiamo a casa: non ci crederanno mai”. Colazione, anche questa abbondante, e si parte.


Le scarpe sono ancora umide e la neve non aiuta di certo ad asciugarle, ma l’ottimismo vince comunque e affrontiamo la seconda giornata col sorriso. Attraversiamo la brughiera innevata dell’altipiano Filmoor, saltellando su zolle erbose e massi affioranti pur di non inzuppare ulteriormente le scarpe. Scendiamo verso i Stuckensee e climi più miti, accompagnati dai muggiti delle mucche al pascolo, dal suono dei loro campanacci e da piantine di mirtilli carichi di bacche semicongelate. Granita di mirtilli, insomma.

La traccia ci porta in poco tempo alla Porzehütte, dove due anni prima incontrammo Desiderio, portatore di panini, cioccolatini e altro comfort food, con cui rifocillare gli allora imperterriti “traversatini”. Stavolta ci concediamo un breve spuntino, prima di risalire la forcella Dignas. E’ domenica e il sentiero è ingombro di escursionisti appiedati e riders in sella a mountainbike o moto da cross. Cinzia è di nuovo dolorante per il tendine, palesemente infiammato. Sapendo che oltre la sella ci attende una lunga discesa su forestale, il morale risale quanto basta.

Riusciamo ad accelerare il passo lungo tutto il sentiero delle malghe. Ad ogni ricovero incontriamo branchi di quadrupedi diversi, tutti confidenti e amichevoli: mucche, pecore, asini, cavalli, capre.


Il Sole ci omaggia di un tepore gradito, ma in lontananza, direzione Peralba, le nubi si stanno addensando. A casera Pra Marino in Val Visdende piove di sicuro. Ricordandoci di come abbiamo affrontato la salita al passo Oregone due anni prima, sotto al diluvio, scivolando sul sentiero fangoso e battendo i denti tra le trincee ai piedi del Peralba, facciamo i debiti scongiuri di non dover ripetere l’esperienza.

Tra malga Antola e il fondovalle inizia a piovigginare, tanto per non farci mancare nulla. Non riusciamo nemmeno a sfoderare i poncho che ha già smesso; però sono calati anche il Sole e la temperatura dell’aria. Il tendine di Cinzia sta dando segni di insofferenza, anche i tratti in discesa sono diventati un calvario. Nei pressi di malga Chivion proviamo ad alleviarle il dolore con una fasciatura improvvisata, ma il sollievo è davvero breve. In compenso suscitiamo l’interesse di alcuni asinelli molto invadenti.

Come per la sera precedente, ottengo il nulla osta ad accelerare il passo per raggiungere il rifugio al più presto e assicurarci i posti letto. Salgo abbastanza velocemente verso il passo Oregone, disturbo una gallina cedrone, delle marmotte sovrappeso e uno stormo di gracchi che mi svolazza sopra la testa.


Cerco di individuare Franco e Cinzia, lungo il sentiero in salita, ma la vegetazione e i tornanti me lo impediscono. Scendo quindi veloce in direzione Hochweißsteinhaus. Imbocco tutte le scorciatoie, taglio tornanti, saltello sulle zolle erbose pur di arrivare alla meta.

Alle 18.05 entro nel rifugio e vengo accolta con modi piuttosto bruschi. Dalla quantità di calzature appese nella “sala scarpe”, deduco che il rifugio ospita parecchi escursionisti. Vengo gettata nella sala pranzo e informata che io ceno, chi arriva dopo le 18 non cena più: si dovrà accontentare di ciò che avanza in cucina. Provo ad obiettare: che siamo in tre, che abbiamo prenotato mesi addietro, che scelgo io il menu per i miei due compagni, che gli andrò incontro per avvertirli. Ma no, non se ne parla. Le regole della casa sono queste e ai gestori dispiace che non ne siamo stati debitamente informati, visto che la mail di conferma non riportava né orari né altre indicazioni.
Ceno, malvolentieri e preoccupata per la sorte dei miei compagni. Al loro arrivo gli viene servito un minestrone dall’origine dubbia. Galleggiano tocchetti di verdure lesse e würstel, affiora qualche cubetto di un formaggio non meglio identificato. Per fortuna i due non si lasciano abbattere e si rifanno con un’enorme fetta di strudel. Scopriamo che ricaricare il cellulare costa, fare la doccia costa, l’acqua corrente è contaminata e quella potabile costa.
Verso le 20 saliamo nel dormitorio che assomiglia di più a una scatoletta per sardine: siamo in 17 a godere del ristoro notturno offerto dal rifugio. Mentre prepariamo gli zaini per la levataccia dell’indomani mattina, veniamo invitati con modi spicci da alcune signore, occupanti i letti sotto ai nostri, a fare silenzio. Finiti i preparativi, ci rassegniamo ad andare a nanna alle 20,30. Punto la sveglia alle 6, visto che le regole della casa, fin troppo stringate, indicano l’orario per la colazione dalle 6,30 alle 7,30. Chi arriva più tardi, non fa colazione.
Alle 6,30 siamo in pole position, pronti per fare il pieno di carboidrati. Ma il rispetto delle regole della casa è a senso unico: la sala apre alle 7 passate e la fila di ospiti in attesa si è allungata parecchio. Anche portare via uno spuntino da consumare lungo il cammino costa e rappresenta la ciliegina sulla torta della nostra indignazione. Qui non metteremo più piede: il turista non è solo una risorsa economica da spellare viva. Bisogna offrire un servizio all’altezza di quanto viene sborsato.

Usciamo dal rifugio alle 8,00 e la temperatura è davvero bassa. Nel sottoportico segna 8°C ma l’erba calpestata scricchiola ed è coperta da una patina bianca. Cinzia ha indossato i sandali, nonostante il freddo e l’erba ghiacciata che le bagna i calzini; evidentemente il dolore al tendine non è diminuito durante la notte. La repentina salita al giogo Veranis ci serve per scaldarci e dirigerci rapidamente verso le casere della vallata di Fleons.


Poco prima di salire verso casera Sissanis di Sotto, Cinzia decide saggiamente e di interrompere lì la sua avventura. L’infiammazione al tendine non le lascia altra scelta, che scendere zoppicando a Forni e farsi venire a prendere da un conoscente. Discutiamo circa l’opportunità di accompagnarla, di sospendere anche la nostra Traversata per riprenderla in giorni migliori. Cinzia insiste a farci proseguire: lei, da accanita ed esperta escursionista, non avrà problemi a scendere a valle incolume. Ci salutiamo molto a malincuore, il morale di noi due superstiti crolla a minimi storici, ci raccomandiamo di sentirci la sera stessa per tranquillizzarci a vicenda.

Riprendiamo il nostro cammino in silenzio, consapevoli anche che ci attende la salita, interminabile, a sella Sissanis. Scolliniamo, tra sbuffi di fiatone e monosillabi lamentosi, e raggiungiamo una zona dove la copertura cellulare ci permette di riorganizzare il nostro recupero serale. Lorenzo dà la propria disponibilità a venirci a prendere alle 17 al passo Monte Croce Carnico, ma ha i minuti contati per impegni lavorativi. Gli promettiamo che arriveremo puntuali al rendez-vous, anche correndo.

Scorgiamo il lago Pera e, poco oltre, il Bordaglia. Stiamo percorrendo ambienti spettacolari e la natura sottolinea ogni scorcio, rendendolo unico e difficilmente descrivibile a parole. Bisogna raggiungerli e ammirarli coi propri occhi, pagando con un po’ di fatica e sudore il premio di tanta meraviglia. Mentre attraversiamo il ghiaione che scende dalla Creta di Bordaglia, incontriamo il gestore della casera Bordaglia di Sotto. L’inflessione dialettale colloca le sue origini in Carnia, anche il portamento e l’orgoglio, che esprime descrivendo le sue “bestie”, confermano il nostro sospetto.

Mentre chiacchieriamo, notiamo salire nubi dense dal fondovalle e la temperatura scende nuovamente. Salutiamo il bovaro e ci fiondiamo verso il passo Giramondo, dove mangiamo un boccone energetico. Entrambi serbiamo un pessimo ricordo del passo, percorso due anni prima: scosceso, lungo, scivoloso, poco adatto a un passo spedito. E invece entriamo nel bosco ai piedi del passo in brevissimo tempo e senza aver rischiato nemmeno uno scivolone.

Scendiamo ancora, restando al riparo delle conifere, fino a sbucare nei pascoli della Wolayer Alm. Veniamo accolti dalle solite marmotte fischianti e da mucche placidamente ruminanti. Purtroppo ci attendono anche nubi basse e minacciose, che affrontiamo con grinta, mentre ci auguriamo che siano solo di passaggio. La pendenza costante e piuttosto noiosa della salita al passo Volaia ci invoglia ad accelerare il passo. Alle 13 in punto scolliniamo, con la timida speranza di poter ammirare il lago e il gruppo del Coglians liberi da nubi. E invece constatiamo che quassù le condizioni meteo sono pure peggiori: piove anche abbastanza insistentemente.

Ci avviciniamo al rifugio Lambertenghi, ancora in ristrutturazione, e al bivio che dovrebbe portarci al sentiero Spinotti. La visibilità è talmente ridotta e la pioggia così fastidiosa, che decidiamo di non affrontare il sentiero attrezzato. L’unica alternativa è scendere al rifugio Tolazzi e risalire il versante opposto, per raggiungere il rifugio Marinelli. Questa variante ci costerà un’ora abbondante e ben 400 mt di dislivello positivo in più di quanto preventivato.
Scendiamo zitti e mogi lungo la forestale, che almeno ci consente di tenere un passo molto sostenuto. Imbocchiamo il sentiero per il Marinelli, evitando lo sterrato, pur di guadagnare un po’ di tempo sulla inflessibile tabella di marcia. La fatica si fa sentire e il sentiero fangoso non solleva lo spirito. Mentre passiamo accanto alla casera Moraretto, percepiamo stupiti dei rumori ritmati provenire dall’alto. Man mano che guadagniamo quota, capiamo che si tratta di musica tecno-pop, probabilmente proveniente proprio dal Marinelli.

A causa della fitta nebbia, sbattiamo praticamente contro il rifugio e intravvediamo a fatica alcune decine di ragazze e ragazzi, scatenati e fradici, che ballano al ritmo della musica. Invece a noi manca la loro forza di spirito, ma anche il tempo per permetterci una breve sosta. Ci rassegniamo a correre fin dove possibile, lungo il sentiero che serpeggia ai piedi della Chianevate. Sappiamo che è lì, alla nostra sinistra, maestosa e grezza, ma non la vediamo, purtroppo. Franco fa un rapido calcolo: mancano 8 km al traguardo e abbiamo meno di due ore per percorrerli.

Le pietre bagnate e scivolose, l’erba fradicia, la visibilità ridotta, la pioggia e la stanchezza ci obbligano a procedere cauti, specie nel risalire la Scaletta. Oltrepassato questo ultimo tratto ostico, che in condizioni decenti offrirebbe puro divertimento, ci buttiamo a capofitto in direzione del passo. Nonostante tutto, ci arriviamo intatti e anche ritemprati, poco dopo le 17. Lorenzo ci attende da alcuni minuti di fronte alla caserma dismessa, ci concede il tempo utile per cambiarci gli abiti zuppi e ci accoglie nell’auto riscaldata a puntino.
Gli raccontiamo a spanne tutte le difficoltà e imprevisti incontrati e superati con una buona dose di goliardia e incoscienza, ma anche la bellezza e varietà di ambienti attraversati lungo questa prima metà di Traversata Carnica. Il ritorno a casa è gradito, nonostante interrompa temporaneamente la nostra impresa. Ma sappiamo già che tra alcuni giorni la riprenderemo esattamente dove l’abbiamo sospesa.
Ed è subito sabato, un’alba fredda e umida ci accoglie al passo Monte Croce Carnico. Siamo io e Franco, i nostri zaini ormai collaudati, le nostre aspettative, grinta e ostinazione, prontissimi ad affrontare la seconda metà della Traversata Carnica. Mi sono portata appresso una colazione improvvisata, con tanto di brioche farcite e caffè bollente. L’iniziativa è apprezzata anche da Franco e ci mette dell’umore giusto per imboccare, fin da subito, il sentiero in salita al Pal Piccolo.

Evitiamo il sentiero del museo a cielo aperto perché ci farebbe rallentare troppo, con tutte le testimonianze della follia umana che ha devastato questo settore, come molti altri, dell’arco alpino. La bruma mattutina si annida in cima al Pal Piccolo e intravvediamo solo una fetta del gruppo del Coglians che si staglia di fronte a noi. Il Sole sta sorgendo in fretta e ci regala atmosfere magiche. L’omino delle vette non si smentisce e suggerisce di salire sul Freikofel; scartiamo questa opzione con una sola occhiata, non serve discuterne. Attraversiamo prati, pascoli, boschi, pietraie e brughiere con spensieratezza: ormai il peggio l’abbiamo vissuto e superato. Questo weekend il meteo sembrerebbe più benevolo.

Passiamo accanto alla pacifica mandria di mucche del bovaro canterino, un personaggio a dir poco insolito, incontrato presso la casera Pal Grande di Sotto due settimane prima, durante uno dei nostri sopralluoghi.

Saliamo verso la casera gemella di Sopra e ammiriamo da lontano la creta di Timau e l’Avostanis in lontananza. Franco esprime i suoi timori circa la difficoltà della risalita fino a sella Avostanis. Avendola affrontata alcuni giorni prima, lo rassicuro che la mente gli sta giocando un brutto tiro: è sì impegnativa, ma mantenendo un passo tranquillo, si raggiunge la forcella in men che non si dica.

E infatti scolliniamo senza patimenti, complici anche i tantissimi mirtilli raccolti e le soste per ammirare lo spettacolo di nubi basse, raggi solari e nebbiolina strisciante che si posa su sentieri e pascoli. E mentre noi scendiamo verso il lago Avostanis, incontriamo frotte di escursionisti che da casera Pramosio bassa stanno salendo verso quote più elevate.

Intuiamo il sentiero che dovremo imboccare, una volta raggiunta la casera, ma all’altezza della successiva casera Morgante sentiamo forte il bisogno di ravanàge e tentiamo una fortunosa scorciatoia tra mughi e vegetazione rigogliosa. Ancora mirtilli e lamponi ad allietare la nostra fatica mentre arriviamo in sella Cercevesa.

Le nubi hanno lasciato il passo alle correnti ascensionali, che ci raggiungono calde e improvvise. Il sentiero ha risentito fortemente degli eventi meteorologici dell’inverno passato. La neve si è portata a valle parecchi metri di tracce, ma noi ci divertiamo lo stesso.

Stavolta aggiriamo il Cuestalta dal versante sud. Due anni prima ci era toccato il versante nord, con tratti di sentiero devastati dagli ungulati e anche parecchio esposti. La Creta Rossa ci attende, coi suoi fianchi di pietre color ruggine che si stagliano in mezzo al bianco/grigio delle altre cime attorno.

Torniamo a scendere e tentiamo di capire se il rifugio Fabiani sia ormai dietro il prossimo costone. Ci piombiamo sopra, praticamente, avvisati solo dal vocio dei gitanti ospiti del rifugio. Ci concediamo un ottimo caffè al volo, riempiamo le borracce alla fontana e ripartiamo: troppa gente, troppa confusione.

Il nostro omino delle vette ci indirizza verso cima Val di Puartis, con l’intento di farcelo risalire lungo il versante nord. Tiriamo due conti, sia in kilometri che in dislivello, e scegliamo a cuor leggero di restare a quote più ragionevoli.
Nei pressi della malga Lodin Alta incontriamo una comitiva di assaggiatori di formaggi, delusi per la chiusura inattesa della malga. Scorgiamo alcuni falchi pellegrini che, in volo statico, tengono d’occhio noi e il sentiero che stiamo percorrendo. Franco, che mi precede di alcuni metri, calpesta inavvertitamente un piccolo marasso. Evidentemente stiamo disturbando fauna selvatica che diverrà un buon boccone per i rapaci guardinghi. Alterniamo prati, col Sole che picchia forte, a boschi, che offrono ombra e brevi ristori.

Facciamo una breve sosta prima di affrontare i restanti kilometri che ci separano dal Cason di Lanza. In via preventiva incollo due cerotti antivesciche sul piede maltrattato di Franco; ormai sono entrata appieno nel mio ruolo di infermiera, eletta per alzata di mano. Mentre percorriamo sterrati e sentieri raccogliamo altri mirtilli e lamponi. Nei pressi dell’agriturismo Il Cippo ci immettiamo un po’ controvoglia sulla strada asfaltata, che seguiamo per quasi tre kilometri, scansando auto e moto arrembanti e roboanti.

Il Sole è tramontato da poco, quando ci presentiamo allo staff del Cason di Lanza. Veniamo accompagnati in una camera privata, dotata di tutti i comfort utili e necessari per un riposo rigenerante. Doccia calda, finalmente, stanza ampia, letti comodi, tanto spazio per riorganizzare lo zaino. Durante la cena osiamo chiedere di poter anticipare la colazione alle sei. L’indomani ci attendono quasi 40 kilometri di Traversata e dobbiamo presentarci a rifugio Nordio entro le 20, orario di chiusura della cucina. Vorremmo non ripetere l’esperienza vissuta alla Hochweißsteinhaus.
Ci accordiamo con una ragazza dello staff, carinissima e molto disponibile. Ci permetterà di partire allo spuntare del Sole e a stomaco pieno. Ceniamo abbondantemente e dormiamo ancora più abbondantemente. La sveglia suona alle 5,30 e ci avverte che sarà una giornata lunga e che dovremo macinare tanti kilometri in fretta, pur di arrivare alla meta.

Facciamo colazione in fretta e sbaracchiamo, ringraziando la nostra benefattrice. Risaliamo la val Dolce, tenendo sott’occhio la sagoma inconfondibile della Creta d’Aip. Le nuvole ne avvolgono la cima e le temperature mattutine ci spingono verso la sella d’Aip. Il sentiero che attraversa il ghiaione è sferzato da raffiche di vento impietose e siamo tentati più volte di indossare il piumino. Poi ci convinciamo che siamo quasi arrivati alla sella, che, una volta scollinato, godremo di un clima meno rigido e teniamo duro.

Indico a Franco il bivacco Lomasti, con la sua copertura in lamiere di un rosso acceso, impossibile non notarlo. Vediamo uscire due persone e due cani, che si dirigono anche loro verso sella d’Aip. Ci scontriamo letteralmente sulla pietraia che scende alla sella, ma appena viste e riconosciute le cagnette che li precedono, ho già idea di chi sono quelle due persone: amici ravanatori con cui abbiamo condiviso tante marce Fiasp e manifestazioni di trail running. Foto di rito, due chiacchiere circa progetti a breve e medio termine, l’apprezzamento della ragazza quando viene a sapere che pernotteremo al Nordio (“ma voi siete pazzi, e siete pure in pantaloncini corti!!!”) e ci salutiamo, augurandoci buoni passi.

Mentre Franco effettua una sosta tecnica, io scivolo malamente su una pietra liscia e bagnata, atterrando col fondoschiena su un’altra pietra, molto meno liscia. La mia preoccupazione primaria è che nessuno abbia assistito alla caduta, poi verifico gli eventuali danni. A parte l’inevitabile contusione, nulla di preoccupante. Un dolorino situato nella zona dell’atterraggio mi accompagnerà per alcune settimane.


Sentiamo da lontano l’avvicinarsi del passo Pramollo: la cosiddetta civiltà chiede lo scotto in termine di inquinamento acustico e ambientale. Gitanti di tutte le età e nazionalità affollano il luogo prettamente turistico, mentre una mandria di manze rumina placidamente in mezzo alla folla e ai mezzi a motore. Ce ne allontaniamo volentieri, inerpicandoci lungo le pendici settentrionali dell’Auernig.

Assaporiamo il silenzio, il rassicurante ritmo del fiatone, l’ombra della boscaglia, i mirtilli deliziosi. Nei pressi dell’impianto di risalita riempiamo le borracce con acqua di fontana, ghiacciata e dissetante. Dopo aver divagato nei pressi dei laghi in zona Pramollo, pur di guadagnare qualche kilometro, torniamo a calpestare i sentieri percorsi due anni prima. I ricordi si rifanno vivi: era l’ultima tappa, allora, e potevano prendercela pure con calma. L’importante era raggiungere Tarvisio ancora interi e prepararci ai festeggiamenti.
Oggi invece abbiamo necessità di procedere con una certa fretta; scendiamo quindi verso la Garnitzenalm con brio. Franco accusa qualche disturbo intestinale; che sia colpa dell’abbondante merenda di mirtilli e lamponi, o dell’acqua gelida bevuta poco prima? Affrontiamo con passo spedito uno dei tratti più belli e suggestivi della Traversata: il sentiero diventa una galleria alberata, il fondo è sottobosco morbido e profumato di conifere, numerosi fiori spuntano nelle chiazze baciate dal Sole, i funghi fanno capolino tra le foglie autunnali rimaste sul suolo. E poi ci sono quei passaggi su ghiaiette e roccette affioranti che ridestano l’attenzione dell’escursionista curioso.

Franco resta indietro, impegnato in urgenze non procrastinabili. Io raggiungo dapprima sella Zille e poi sella Chersnizze, dove lo aspetto. Gli offro un Imodium, vista la poca collaborazione del suo intestino. Torniamo a macinare kilometri assieme, in silenzio per non disperdere energie, e all’ombra del bosco. Raggiungiamo Egger Alm all’ora di pranzo, ma non ci fermiamo, nonostante le numerose trattorie e Gasthäuser.


E’ nelle nostre intenzioni lasciarci alle spalle il più alto numero di kilometri e il più in fretta possibile, almeno laddove si può procedere facilmente a gran velocità. D’altronde, la strada asfaltata che collega Egger Alm a Dellacher Alm è intasata di gitanti e ci invita a proseguire senza indugi.

Nei pressi della Dellacher Alm, Franco nota un ragazzo, sui trent’anni, che ciondola indeciso nei pressi di una selva di cartelli segnaletici. Ha sul groppone uno zaino enorme, 70 litri come minimo. Franco si ricorderà di lui quando lo vedremo arrivare stanco ed esausto al rifugio Nordio, due ore dopo il nostro arrivo. I problemi di orientamento del ragazzo non ci toccano, noi dobbiamo raggiungere dapprima la Görtschacher Alm e poi la sella che divide i monti Sagran e Starhand.


E la salita, lo sappiamo fin troppo bene, è lunga, ripida e senza pietà. Franco accusa una certa stanchezza, causata dalle sue frequenti fughe tattiche nel sottobosco. Tento di tenere alto il morale, consultando la traccia sul cellulare, riferendo a Franco i progressi fatti e tenendo d’occhio l’orologio. Tutto sommato siamo in anticipo sulle nostre previsioni infauste e manca davvero poco alla famigerata sella.

Da molto tempo non mi felicitavo così tanto per aver raggiunto un segnavia, ma finalmente eccolo qui, si staglia solitario sulla sella erbosa. Ci indica impettito la direzione verso il rifugio Nordio e ci informa anche che dovremmo metterci meno di un’ora. Sono appena le 17, rischiamo di arrivare a destinazione con largo anticipo.

Il sentiero di sottobosco è tormentato da schianti recenti e più datati, la vegetazione ha subito rassegnata gli effetti delle intemperie. In discesa verso la Dolinza Alm tagliamo un paio di tornanti, saltellando tra zolle erbose e crateri lasciati nella croda dal passaggio del bestiame; le nostre gambe sembrano rinate e rispondono bene anche a queste sollecitazioni.

Al rifugio Nordio ci stanno aspettando, ma non a quest’ora. Ci fanno i complimenti per la prestanza fisica; noi ci teniamo a far loro sapere che è solo merito dello squilibrio e della ostinazione. Anche qui: camera privata, bagno con doccia calda, cena lauta e personale simpatico e disponibile. Mentre chiacchieriamo con la gestrice, arriva il ragazzo incontrato alla Dellacher Alm. E’ austriaco, stanco e sfatto. Scopriamo più tardi che sta completando la Traversata delle Alpi, da Salisburgo a Trieste, attraversando 4 nazioni e macinando 500 kilometri. Beh, tanto di cappello! Ovviamente non mi lascio sfuggire l’occasione e chiedo lumi alla gestrice, che mi presta la guida cartacea che illustra le 28 tappe istituzionali della Traversata delle Alpi.
Prendo debitamente nota, sia mai che arrivi anche un periodo fortunato, in cui potrò prender ferie per più di 3 giorni consecutivi. Non abbiamo copertura telefonica da un pò, ma la consapevolezza di essere tagliati fuori dal mondo civile non ci preoccupa. Dormiamo il sonno dei giustamente stanchi e ci alziamo tardi. Ce lo possiamo permettere: l’ultima tappa, che ci porterà a conclusione dell’impresa, richiede relativamente poco sforzo, solo 20 kilometri e meno di 1000 mt di dislivello da percorre. Una passeggiata, direbbe l’escursionista incosciente.

Colazione calorica, per partire con slancio. Salutiamo i gestori e gli promettiamo che ripasseremo da lì, prima o poi. La salita alla sella Bistrizza la conosciamo come le nostre tasche, entrambi abbiamo bazzicato spesso e volentieri l’Osternig e l’Acomizza. Ci fermiamo ripetutamente a mangiare lamponi e a scattare foto, tentando di immortalare i giochi di luce dei raggi che solcano, ancora bassi, il sottobosco. Sembrano lame che si fanno strada tra i tronchi. Franco sta decisamente meglio e mi sento sollevata.

Dopo circa 2 km dall’inizio della nostra ultima tappa, mi accorgo con disappunto che il mio cellulare non è più nell’apposito scomparto dello zaino. Lo affido a Franco e mi lancio di corsa verso il rifugio Nordio, cercando di tenere d’occhio sia il sentiero che i due cigli erbosi. Il Garmin suona contrariato, per avvertirmi che sono tornata indietro di 1 kilometro. Corro ancora e finalmente eccolo lì, in zona raccolta lamponi, adagiato sul ciglio erboso del sentiero. La fortuna mi ha assistito anche stavolta.
Faccio dietrofront e affronto il sentiero, ora in salita, che ho disceso a perdifiato. Provo ad accennare a una corsetta, sono mesi che non lo faccio, e ci riesco pure. Raggiungo Franco dopo 20 minuti, col fiatone e sudando sette camicie, ma anche sollevata per il ritrovamento e la fatica, nemmeno esagerata, fatta per riguadagnare il tempo perso. A pensarci bene, il cellulare mi serve più per contattare mio figlio Damiano e organizzare il nostro recupero a Coccau, che per tenere d’occhio la traccia. La zona la conosciamo a menadito e la direzione è ben fissata nella memoria.

E’ ancora presto, mentre raggiungiamo la Sella Bistrizza, e non incontriamo anima viva. Qualche caminetto sbuffa fumo e qualcuno sta spaccando legna. Ormai le temperature notturne obbligano umani e animali a trovare tepore e benessere con altre fonti, che non sia il Sole.


Scendiamo corricchiando verso sella Pleccia e riprendiamo a salire in direzione Achomitzer Alm. Anche lì, poche presenze umane. Optiamo per la variante “ravanàge nel bosco” perché siamo vagamente in ritardo sulla tabella di marcia. Sono riuscita ad inviare un messaggio a Damiano, dandogli appuntamento per le 14 a Coccau, fermata dell’autobus.

Calpestiamo pascoli erbosi, con zolle divelte non si sa bene se dal bestiame o dai cinghiali grufolanti. Saliamo e scendiamo a vista, tagliando tornanti e, si spera, accorciando distanze e tempi. A sella Bartolo ci concediamo una breve sosta, per ricaricare le batterie e darci il coraggio necessario per affrontare la salita al monte Capin di Ponente. Due anni prima, proprio quella salita ha rappresentato l’apoteosi del nostro (discutibile) agonismo: superare, ostentando nonchalance e minimo impegno fisico, la squadra di nonnine arzille che ci hanno fatto sputare pallini per tutti i giorni della gara, è stato un evento epico, memorabile, esaltante. Ci accontentiamo di poco, lo so.

Franco dà il ritmo, è in gran forma e io mi diverto un mondo a sbuffargli nel cavo popliteo. Ci stiamo godendo quest’ultima fatica, questi ultimi metri di dislivello positivo, il fiatone e il sudore spesi per portare a termine un’impresa che non scorderemo tanto presto. Il mio cellulare torna a fare capricci, non ha connettività, neanche in roaming. Avremmo voluto avvertire Damiano di presentarsi a Coccau con mezz’ora di ritardo, ma non c’è verso. Non ci resta che percorrere il traverso tra il Capin e il Goriane a passo brioso.

Altrettanto briosamente scendiamo lungo la forestale, a tratti completamente stravolta dal ruscellamento, che dal Goriane ci porta a Coccau. Come sempre, nei tratti in discesa, Franco mi precede con disinvoltura: non avete idea di quanti sorci verdi mi abbia fatto vedere, durante questi sei giorni epici. “Sono solo 5 km, dovremmo farcela” ci ripetiamo. Rischiamo più volte di scavigliare o scivolare sul ghiaino; intravvediamo le prime costruzioni del paese alle 13,50. Correndo col sorriso sulle labbra, maciniamo l’ultimo mezzo kilometro che ci divide dalla fermata delle corriere. Ci vengono incontro cicloturisti austriaci, impegnati a percorrere la ciclabile Alpe-Adria, e ci salutano entusiasti. Rispondiamo con scoppiettante entusiasmo. Alle 13.58 ci scattiamo il selfie che decreta il successo dell’impresa.
Pochi minuti dopo si ferma accanto a noi Damiano; simbolicamente è lui che mette la parola “fine” alla nostra Traversata Carnica. Il rientro in auto è spigliato, gli raccontiamo aneddoti e inghippi, emettiamo un primo bollettino degli acciacchi fisici, stiliamo l’inventario del contenuto dello zaino, ci promettiamo che per un po’ ci godremo il meritato riposo, ci scambiamo le tante foto scattate, ci facciamo sinceri e sentiti complimenti per come abbiamo affrontato ogni aspetto del cammino.
Scrivere questo racconto mi dà l’occasione di ripercorrere, a freddo, i sentieri e le emozioni che ho visto e vissuto, fissandoli nella memoria e nell’anima. Mi permette anche di ringraziare, come sempre e com’è dovuto, coloro che ci hanno aiutato, facilitato, supportato e sopportato. Ma soprattutto ringrazio di cuore Cinzia e Franco per il loro entusiasmo, per la compagnia impagabile, per il buon senso dimostrato e le decisioni prese, per la flessibilità, la tenacia e la caparbietà che li contraddistingue.
E colgo anche l’occasione per promuovere la Traversata Carnica tra coloro che percorrono vette e forcelle da anni e non hanno ancora trovato l’ispirazione giusta per dare il via a questa avventura, ma anche tra chi si è avvicinato da poco al mondo dei cammini in quota. Non c’è bisogno di percorrere la Traversata per intero o tutta d’un fiato, né di infrangere record personali o lanciare sfide assurde. Chiunque voglia ammirare cime e vallate carniche può cimentarsi lungo i quasi 200 km di estrema bellezza; pianificando con cura, allenandosi con determinazione, usando il buon senso e affidandosi a chi ha esperienza in merito. L’esperienza potrebbe esaltarvi oltre le attese.