𝐋𝐨 𝐬𝐚𝐩𝐞𝐯𝐢 𝐜𝐡𝐞?
Sto frequentando parecchio la Bassa Friulana, specie la zona costiera e da alcuni giorni le siepi si sono colorate di fiori le cui corolle regalano tonalità dal bianco al rosa, fino al viola purpureo. Oggi vi parlo dell’𝙤𝙡𝙚𝙖𝙣𝙙𝙧𝙤 (𝘕𝘦𝘳𝘪𝘶𝘮 𝘰𝘭𝘦𝘢𝘯𝘥𝘦𝘳), pianta ornamentale proveniente dalle regioni mediterranee e asiatiche. Eppure si trova rigoglioso anche in Friuli, specie in zone costiere. E’ una specie 𝙖𝙡𝙡𝙤𝙘𝙩𝙤𝙣𝙖 (cioè non originaria dell’Europa centrale e continentale) detta “𝙘𝙖𝙨𝙪𝙖𝙡𝙚”. Si chiamano così le specie vegetali e animali introdotte dall’uomo, ma che nell’area interessata non riescono a formare popolazioni stabili e a riprodursi con successo, tant’è che tocca all’uomo rinfoltirla continuamente.
L’oleandro è una specie termofila (amante delle temperature calde) ed eliofila (amante dell’irraggiamento solare), abbastanza rustica. Preferisce terreni umidi, ma gli stomi fogliari (i canali presenti sulla superficie fogliare attraverso cui avvengono gli scambi di acqua, ossigeno e anidride carbonica con l’ambiente esterno) peculiari della specie permettono alla pianta di superare indenne prolungati periodi siccitosi. Non ama il freddo, deve quindi essere messa al riparo durante i mesi invernali. Nelle zone in cui è stata reintrodotta è coltivata soprattutto come cespuglio ornamentale; dove invece è autoctono, va a formare rigogliose siepi di delimitazione perché non richiede particolari cure e attenzioni.
I fiori dell’oleandro, oltre all’ampia varietà di colori, emanano anche un gradevole e intenso profumo. La fioritura va da tardo maggio a luglio. La pianta, interrata, può superare i 6 metri di altezza; in vaso non va oltre i due metri.
Il nome generico deriva secondo alcuni dal greco ‘nerón/ nerós’, cioè “umido, fresco”; secondo altri sempre dal greco ma da ‘naros’, “fluente” in riferimento al suo habitat naturale, cioè i greti e le sponde di corsi d’acqua. Neanche il nome specifico ha un’interpretazione univoca. Alcuni lo voglio riferito a ‘olea” (olivo) per l’aspetto delle foglie, simili all’olivo. Per altri il termine è il frutto di un’errata trascrizione (‘arodàndrum’) dal greco rhododèndron (‘ῥόδον rhódon’ = rosa + ‘δένδρον déndron’ = albero) per il colore dei fiori di molte specie di questo genere.
Accennavo ai fiori, rigogliosi e variamente colorati. Sono velenosi, come anche le radici, i fusti, le foglie, i semi. E lo sono per l’uomo e per i mammiferi in generale (cavalli, bovini, cani, gatti). Tutte le parti vegetali contengono 𝙤𝙡𝙚𝙖𝙣𝙙𝙧𝙞𝙣𝙖, un glicoside cardiotossico (ciclopentano e peridrofenantrene), che provoca numerosi casi di avvelenamento in ruminanti sbadati ed escursionisti ignoranti.
I primi, brucando erba magari in prossimità di una pianta di oleandro, possono accidentalmente ingerire le foglie o i fiori. Invece gli escursionisti usano il legname proveniente dalla pianta per accendere focolari di campo e arrostirci i würstel alla fiamma. La legna dell’oleandro rilascia il glicoside cardiotossico durante la combustione, che può essere assorbito o inalato dai tessuti che vengono in contatto con esso.
Ed è sconsigliato pure cibarsi di animali che, immuni alla tossina, abbiano ingerito parti vegetali della pianta. La tossina permane del loro organismo ed è assorbita, in seconda sede, dal loro consumatore alimentare. Anche il miele prodotto dalle api che si nutrono del polline dell’oleandro continua a presentare elevate concentrazioni della tossina; lo stesso discorso vale per il latte munto dalle vacche che abbiano ingerito, in minime dosi, la tossina.
L’oleandrina agisce sul cuore, ma dapprima causa disturbi gastrici (nausea, vomito, dolori di stomaco). Poi subentrano alterazioni del ritmo cardiaco, ipertensione, coma e morte per arresto cardiaco, in casi rari.
Qualche aneddoto tradizional-popolare.
Alcuni annali storici riportano come diversi soldati delle truppe napoleoniche siano morti per avvelenamento causato dai rami di oleandro usati come spiedi, per cuocere la carne alla brace durante le loro campagne militari in Italia. Di recente ricerche scientifiche hanno smentito questa leggenda metropolitana. I rami della pianta non rilasciano quantità così elevate di tossina, ma la legna bruciata per abbrustolire il cibo, quella sì.
L’oleandro è chiamata popolarmente anche Nerio o mazza di san Giuseppe. Quest’ultima dicitura fa riferimento a un episodio presente nella letteratura paleocristiana, secondo cui i pretendenti della Vergine Maria erano stati invitati dai guardiani del tempio a deporre sull’altare un bastone. Quello di Giuseppe, fatto di oleandro, fiorì non appena posato, così che l’uomo fu scelto come futuro sposo.
Nel libro (e successivo film) “White Oleander” l’estratto dell’oleandro bianco è usato per uccidere un compagno “inopportuno”.
