Pitina

𝐋𝐨 𝐬𝐚𝐩𝐞𝐯𝐢 𝐜𝐡𝐞?

Il settimo Presidio Slow Food ha come argomento un prodotto di salumeria. Abbiate comprensione per una povera vegetariana, che ve ne parlerà con assoluta imparzialità, ma non lo assaggerà.

La 𝙋𝙞𝙩𝙞𝙣𝙖 nasce dalla tradizione tipicamente friulana del “non si butta via niente”, dall’esigenza di conservare la carne nei mesi più rigidi e dall’esperienza degli abitanti della Val Tramontina. La vallata è stata segnata per secoli da un’economia di sussistenza, dall’arte di arrangiarsi e dall’emigrazione, del duro lavoro nei boschi e nei pochi campi coltivabili. La caccia era una fonte di introito, almeno calorico, e l’evento fortunato doveva portare a qualche beneficio alimentare. Lo stesso dicasi per una pecora o una capra da riproduzione o da latte malaticcia o ferita gravemente. Le testimonianze, per lo più orali, assegnano agli abitanti del borgo di Frasseneit (Tramonti di Sopra), il merito per aver escogitato il metodo di conservazione già all’inizio dell’800.

La lavorazione della carne a disposizione prevedeva che l’animale venisse disossato e l’impasto di carne finemente sminuzzato nella pestadora (un ceppo di legno incavato). Si aggiungeva sale, aglio, pepe nero spezzato e si formavano piccole polpette, passate nella farina di maie e affumicate sulla mensola del focolare. L’utilizzo di erbe aromatiche diverse dalla procedura standard faceva assumere al salume il nome di 𝙥𝙚𝙩𝙪𝙘𝙘𝙞𝙖; mentre la polpetta di dimensioni maggiori si chiamava 𝙥𝙚𝙩𝙖. Ci tengo a sottolineare l’𝙖𝙨𝙨𝙚𝙣𝙯𝙖 di budelli (o simili per insaccare il salume) e di salatura, vista la difficoltà di reperimento del prezioso condimento. Questo aspetto rendeva – e rende tutt’oggi – la pitina un prodotto davvero peculiare.

L’utilizzo di carni di “recupero” relegava la pitina a “piatto povero”, difficilmente commercializzabile, consumato nella dieta della popolazione locale. Negli anni del Dopoguerra, il salume inizia a circolare al di fuori della valle e ad ottenere i primi riconoscimenti. I produttori, ancora a gestione famigliare, ne diffondono il nome e il consumo. Nel 1969 si svolge la prima edizione della “Festa della Pitina” a Tramonti di Sopra, che richiama numerosi appassionati buongustai e intenditori. Negli stessi anni i comuni della val Tramontina si uniscono nello sforzo e nel progetto di valorizzazione del prodotto. E i risultati si vedono: la Pitina è entrata di diritto nell’elenco dei Presidi Slow Food, ma è anche un prodotto IGP (Indicazione Geografica Protetta).

Deve quindi sottostare a un 𝙙𝙞𝙨𝙘𝙞𝙥𝙡𝙞𝙣𝙖𝙧𝙚 che ne identifica e regolamenta luoghi e tecniche di produzione. La zona della Pitina IGP si limita ai comuni di Andreis, Barcis, Cavasso Nuovo, Cimolais, Claut, Erto Casso, Frisanco, Maniago, Meduno, Montereale Valcellina, Tramonti di Sopra e Tramonti di Sotto, tutti in provincia di Pordenone.

Il salume che si consuma oggi è ingentilito con una parte grassa di pancetta o spallotto di suino che smorza il sapore selvatico della carne di capriolo, daino, cervo, camoscio. Pe la concia è ammessa una miscela di sale marino puro o mescolato con pepe, aglio, vino ed erbe aromatiche (ginepro, finocchio selvatico, semi di finocchio e achillea muschiata). Invece l’impanatura è sempre a base di farina di mais.

L’affumicatura può durare dalle 4 e le 48 ore e avviene bruciando, come da tradizione, legno di pino mugo. In tempi recenti si sono aggiunte le essenze di faggio, carpine e alberi di frutto. Segue la stagionatura naturale, in ambienti che garantiscano una temperatura tra 3 e 18 °C e umidità tra il 60 e il 90%, per almeno 30 giorni. La pitina viene poi confezionata sottovuoto o in atmosfera modificata e commercializzata con il suo marchio e quello dell’Unione Europea. Secondo il disciplinare, la produzione è limitata ai mesi tra settembre e giugno.

A rendere la pitina un prodotto così peculiare, paiono contribuire anche le condizioni eco-climatiche della vallata. L’Osservatorio meteorologico regionale nel 2011 l’ha definita “una enclave prealpina dal profilo meteo-climatico autonomo, segnata da medie annue di precipitazioni autenticamente da record, ma anche dall’assenza di umidità stagnante, con frequente rimescolamento delle masse d’aria aggiunte alla specificità del contesto orografico che ospita il ‘più basso nevaio permanente delle Alpi’.” 

Come si consuma la pitina? Il salume appare, a stagionatura ultimata, di forma semisferica, di colore tra il giallo dorato e il giallo bruno esternamente. Al taglio, la parte interna è tra rosso vivace e bordeaux carico, la grana molto fine, il sapore sapido e l’aroma di fumo. Pesa tra i 100 e i 300 grammi. Viene mangiato crudo a fettine, da solo o abbinata al pane, per gustarne l’aroma di fumo.

Ma dicono essere ottima anche da cotta: scottata nell’aceto e servita con la polenta, rosolata nel burro e cipolla, aggiunta al minestrone di patate, alla brace, nel brodo di polenta con ginepro e rosmarino. Oppure “al cao”, cioè cotta nel latte di vacca appena munto. Si abbina perfettamente con i grandi vini bianchi friulani.

Come stava per accadere agli altri prodotti tutelati da Slow Food, anche la pitina rischiava di scomparire. Nnon era conosciuta al di fuori della zona pedemontana del Friuli e i produttori si contavano sulle dita di una mano. Il Presidio ha dunque riunito i produttori che si distinguono per la produzione secondo tradizione, capaci di valorizzare e promuovere la pitina, coinvolgendo la ristorazione locale e allargandone il mercato.

Anche stavolta vi invito ad assaggiarla e a condividere pareri e considerazioni. Io sto in fiducia.

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