Scarpéts

𝐋𝐨 𝐬𝐚𝐩𝐞𝐯𝐢 𝐜𝐡𝐞?

La cultura carnica, nel panorama regionale del Friuli VG, è senza tema di smentita riconosciuta come fondante e fondamentale nella storia, tradizione e folklore friulana. La Carnia, coi suoi paesaggi e climi “crudi”, ha forgiato il pensiero e i saperi di chi ci ha vissuto. La scarna economia di sussistenza dei decenni e secoli passati si è dovuta, volente o nolente, adattare alle materie prime e alle esigenze dei Carnici.

Fortunati noi, che possiamo godere ed apprezzare, dall’alto della nostra società globalizzata, universalmente connessa, tecnologicamente avanzata (si nota, il velato sarcasmo?), i retaggi culturali e le eredità oggettive tramandateci dai nostri avi. L’abbigliamento carnico rappresenta, in tal senso, uno dei punti chiave per la comprensione del territorio e della cultura che ne è derivata.

Lo spiegone di oggi si concentra sui 𝙨𝙘𝙖𝙧𝙥𝙚𝙩𝙨, le calzature che ancora oggi fanno parlare di sé. Le polemiche sull’italianizzazione (il termine ‘scarpetti’ lo trovo discutibile nel suono e nel significato) della calzatura e le manipolazioni politiche che ne sono scaturite, mi interessano marginalmente. Mi concentro piuttosto sul come e perché un indumento abbia conquistato il mondo.

I scarpéts (con l’articolo volutamente in friulano, che non prevede l’articolo “gli”) sono prodotti e indossati da decenni, e il primo utilizzo si perde nei meandri delle memorie storiche. Sta di fatto che, da quando alcune merci, (aghi metallici, fili e tessuti robusti, sacchi per stoccaggio e trasporto di cereali) hanno intrapreso le vie della Carnia, le donne non si sono fatte cogliere impreparate. Hanno, come è loro solito fare, inventato e realizzato un manufatto con materie prime ‘povere’, di recupero, ritagli, scampoli. E, facendo tesoro della secolare attitudine del “fasìn di bessoi” e “no si strasse nuie”, dato voce e anima alla Carnia.

Carnia che coi suoi sentieri di montagna, impervi, nudi e crudi, pretende calzature morbide, con suole che si adattino alle asprezze delle rocce sedimentarie. Con tomaie avvolgenti, calde e dall’asciugatura rapida. Con allacciature semplici e colori poco appariscenti. I scarpéts riuniscono tutti questi presupposti.

La 𝙨𝙪𝙤𝙡𝙖, storicamente, è composta da decine di strati sagomati, a seconda della misure del piede, ottenuti da tessuti di risulta, i 𝙗𝙡𝙚𝙘𝙨. Lenzuola di lino ormai lise, abiti da lavoro dismessi e non rammendabili, tele ottenute da imballaggi giunti in Carnia grazie ai cramàrs. Gli strati vengono trapuntati con 𝙖𝙜𝙤 metallico, lungo e robusto, dalla punta triangolare, annodati assieme con una media di 1500 – 2000 punti per ogni suola. L’ago, considerato lo spessore di tessuto che deve attraversare, viene estratto con un’apposita pinza. Per agevolarne il passaggio, le donne sono solite ungerlo con cera d’api o sapone; sempre che queste materie preziose fossero disponibili.

Lo strato esterno, quello a contatto col terreno, è di tela grezza e deve sopportare lo sfregamento al suolo. In tempi recenti, al posto della tela grezza si sono utilizzati copertoni di biciclette o carriole non altrimenti riutilizzabili. Questo upgrade ha reso i scarpéts anche antiscivolo.

La forma della 𝙩𝙤𝙢𝙖𝙞𝙖, solitamente in morbido velluto scuro, rivela il paese d’origine. In alcune valli, la punta risulta leggermente rivolta verso l’alto; in altre è complanare alla suola. Anche l’ampiezza della scollatura, da cui infilare il piede, caratterizza il luogo di produzione. I scarpéts non hanno bisogno di lacci o stringhe: la perfetta vestibilità è garantita dalla morbidezza e forma della tomaia. Alcuni modelli, di produzione recente, presentano una stringa passante sul dorso, soprattutto in quelli destinati al mondo dell’infanzia.

La praticità e l’utilizzo nei giorni lavorativi non devono però sminuire la bellezza estetica dell’indumento e lo sfoggio di creatività delle donne impegnate nella manifattura. Ricchi e delicati 𝙧𝙞𝙘𝙖𝙢𝙞, tradizionalmente a tema floreale, ne impreziosiscono spesso il dorso.

La tecnica produttiva si tramandava di madre in figlia ed era ad appannaggio esclusivo del mondo femminile. L’utilizzo, al contrario, è universale. Nel senso che i scarpéts sono entrati anche negli armadi delle classi benestanti, raggiungendo, grazie all’emigrazione femminile o alle loro attività commerciali in espansione, le grandi città. Emblematico è l’utilizzo, da parte di gondolieri veneziani, dei scarpéts che rendevano il loro mestiere meno instabile e scomodo.

Fare gli scarpéts non era solo un modo per autoprodursi un bene primario: spesso i commercianti ambulanti provenienti da zone limitrofe commissionavano suole – la parte più laboriosa da fare – o scarpéts finiti e ricamati alle ragazze della Carnia, barattandoli con tessuti e filati da ricamo per il corredo, permettendo loro di procurarseli senza dover attingere alle poche risorse finanziarie della famiglia.

Al giorno d’oggi, i scarpéts sono ‘di tendenza’: fogge e colori si sono adeguati alle richieste estetiche attuali. Rimane però immutato, nelle piccole realtà di produzione locale ed artigiana, l’utilizzo dei materiali tradizionali. I nomi, con cui identificare i scarpéts, hanno subito i dettami della modernizzazione; oggi le troviamo in commercio anche coi nomi di ‘scarpette friulane, furlane, veneziane, papusse’.

Di recente si è provveduto a registrare il marchio, con la variante italianizzata di “scarpetti”, adottata anche in un atto notarile degli anni ’30 del secolo scorso. Non indugio troppo sull’aspetto storico di questa italianizzazione, ma chi conosce un pò di storia contemporanea, sa anche di come e da chi sia stata imposto l’uso dell’italiano presso le minoranze linguistiche locali.

Ad ogni modo, l’intento di valorizzare e tutelare del patrimonio dell’arte artigianale e produttiva dei scarpéts è lodevole. Per poterne utilizzare il marchio, bisogna rispettare il disciplinare di manifattura identificato dal Museo Carnico delle Arti popolari Michele Gortani di Tolmezzo, che espone anche esemplari pregevoli di scarpéts nei suoi spazi espositivi.

Ultima nota storica, che secondo me induce una profonda riflessione: le portatrici carniche, quelle 1454 anime che sacrificarono i loro anni giovanili, le loro ore più spensierate e – in alcuni casi – anche la salute e la vita per la Patria, indossavano rigorosamente scarpéts durante le loro sofferte e pesantissime trasferte dai fondivalle alle linee del fronte.

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I scarpéts
I scarpéts
Portatrici carniche, al loro rientro a Timau, 1915; ai piedi i scarpéts