Tamus

𝐋𝐨 𝐬𝐚𝐩𝐞𝐯𝐢 𝐜𝐡𝐞?

E’ stagione di raccolta di erbe commestibili e non mi stancherò di ripetere che bisogna conoscere ciò che si porta a casa, specie se poi lo si vuole mangiare, senza timori o danni. Scrivo questo spiegone per fugare qualche dubbio circa la commestibilità del 𝙩𝙖𝙢𝙖𝙧𝙤 (𝘋𝘪𝘰𝘴𝘤𝘰𝘳𝘦𝘢 𝘤𝘰𝘮𝘮𝘶𝘯𝘪𝘴) o tamus, il cui nome comune può effettivamente indurre in errore. In Friuli VG è anche chiamato 𝘶𝘳𝘵𝘪𝘻𝘻𝘰𝘯 o 𝘶𝘳𝘵𝘪ç𝘰𝘯 𝘴𝘢𝘭𝘷𝘢𝘥𝘪, ma nulla ha a che fare col “bruscandolo” che invece è il giovane apice del luppolo selvatico (𝘏𝘶𝘮𝘶𝘭𝘶𝘴 𝘭𝘶𝘱𝘶𝘭𝘶𝘴), chiamato comunemente anch’esso 𝘶𝘳𝘵𝘪ç𝘰𝘯. Insomma, bisogna stare all’erta quando si identificano le piante coi nomi comuni: possono trarre in inganno e rivelare brutte sorprese.

Quella del tàmaro è che tutte le sue parti (radici, foglie crude, frutti) sono 𝙫𝙚𝙡𝙚𝙣𝙤𝙨𝙚 per l’uomo. Esenti sono solo i giovani apici, ancora privi di fiori e/o frutti, che vanno raccolti in queste settimane, e 𝙘𝙤𝙩𝙩𝙞 prima di essere consumati. Contengono comunque 𝘴𝘢𝘱𝘰𝘯𝘪𝘯𝘦, che possono provocare, se assunte in grandi quantità, diarrea, vomito e altri problemi intestinali, oltre ai tannini e una sostanza simile all’istamina.

Ecco, ora che vi ho terrorizzato, passiamo alle informazioni classiche.

Il nome generico è un omaggio a Pedanio Dioscoride Anazarbeo, medico di cultura greca, botanico e farmacista, vissuto nel I secolo d.C. Quello specifico indica che la pianta è piuttosto diffusa.

La pianta vegeta bene in boschi e boscaglie termofili di latifoglie decidue, su suoli umidi ed esposti ad una certa siccità estiva, dal livello del mare a 800 m circa. I nuovi fusti, emessi a primavera dalla radice tuberosa, sono rampicanti e possono svilupparsi fino a una lunghezza di 4 mt. Le foglie sono a forma di cuore, dalla superficie lucida; gli apici si piegano solitamente verso il basso. In casi di ipersensibilità, il contatto delle foglie con la pelle può provocare irritazione cutanea nella zona interessata. Le bacche sono rosse, a grappoli, e molto apprezzate dagli uccelli che risultano immuni alle varie sostanze tossiche.

In passato, la farmacopea popolare usava le radici del tàmaro per curare geloni e reumatismi, ma anche come lassativo e purgante. Per le sue proprietà 𝘳𝘶𝘣𝘦𝘧𝘢𝘤𝘦𝘯𝘵𝘪 (che provoca arrossamento della cute) e stimolanti, era utilizzato come rinforzante del cuoio capelluto e come rimedio per la calvizie.

In Francia, il tamus è chiamato ‘𝘩𝘦𝘳𝘣𝘦 𝘢𝘶𝘹 𝘧𝘦𝘮𝘮𝘦𝘴 𝘣𝘢𝘵𝘵𝘶𝘦𝘴’ (erba per donne picchiate) per l’abitudine di applicare la polpa grattugiata su contusioni, ecchimosi ed ematomi.

La difficoltà a definire i dosaggi e le concentrazioni dei principi attivi, ne ha progressivamente diminuito l’impiego.

Porto la mia esperienza personale e pluriennale: raccolgo l’apice (i 4/5 cm apicali, flessibili e morbidi) del tamus giovane, privo di fiori, in quantità pari o preferibilmente inferiore a quella di luppolo selvatico. Lo taglio a segmenti da 1 cm circa e lo faccio saltare, insieme al luppolo, in padella con burro chiarificato per alcuni minuti. Poi ripongo in freezer, in monodosi, e scongelo all’occorrenza. Va consumato entro pochi giorni; la frittata è la morte sua (e sua soltanto). Attenzione al liquido che il tamus fresco perde in corrispondenza dei tagli: macchia incredibilmente cotone e tessuti tecnici.

ᶠᵒᵗᵒ: ⱽⁱᵗᵒ ᴮᵘᵒⁿᵒ ᵖᵉʳ ᴬᶜᵗᵃ ᴾˡᵃⁿᵗᵃʳᵘᵐ

Apice del tamus
Apice del tamus
Fusto giovane del tamus
Fusto giovane del tamus