𝐋𝐨 𝐬𝐚𝐩𝐞𝐯𝐢 𝐜𝐡𝐞?
𝙰𝚕 𝚍𝚎𝚜𝚝ì𝚗 𝚍𝚎 𝚞𝚗 𝚘𝚖
Al podeva capitâte anç a ti
nasce t’un pegnatón
tra zovàtz e zùfignes
de stries cencja prozes
e al dolour grant de ‘na mare.
Me soi cjatât a passâ
de chê bandes.
𝙸𝚕 𝚍𝚎𝚜𝚝𝚒𝚗𝚘 𝚍𝚒 𝚞𝚗 𝚞𝚘𝚖𝚘
Poteva capitare anche a te di nascere in un pentolone tra rospi e intrugli di streghe senza processo e il dolore grande di una madre. Io mi sono trovato a passare da quelle parti.
L’ho scoperto alcuni anni fa, Federico Tavan, in uno dei miei vagabondaggi per le Prealpi Carniche, nello specifico per Andreis. Bighellonando per il centro cittadino ho scorto, letto, ammirato e amato le poesie, scritte su cartelli, sparsi tutt’attorno. L’autore è il “matto del Paese”, Federico Tavan per l’appunto. Le poesie sono in lingua friulana, nella variante “occidentale”, l’andreano. Non semplici da leggere, anche per chi il friulano lo mastica. Ma immediate da capire – sempre se fosse possibile capire una poesia – e soprattutto da “sentire”.
Federico nasce il 5 novembre 1949 ad Andreis, vi muore il 7 novembre 2013. In mezzo, una vita di disagio, interiore e provocato da fattori esterni. Nasce “storto”, così lo definisce sua madre, perchè è lei stessa che, portando Federico in grembo, viene colpita da un sortilegio lanciatole addosso dalla strega del paese, Giacomina.
Federico non si sente “storto”, anzi. Fa della sua manifesta e ben compresa diversità un dono capitatogli per puro caso. “𝘗𝘢𝘴𝘴𝘢𝘷𝘢 𝘥𝘢 𝘲𝘶𝘦𝘭𝘭𝘦 𝘱𝘢𝘳𝘵𝘪”. I suoi versi cantano la differenza, la lotta per la dignità di chi preferisce restare sè stesso, diverso, differente. Uomo contorto, dalle difficoltà psichiche che è però capace di veicolare in versi della differenza. Non un emarginato, ma un uomo che è consapevole della propria differenza e soprattutto che tale differenza era solo un caso del destino.
Il ragazzo cresce rincorrendo fantasie sui prati, giochi da cowboy, solo, emarginato. Ma lui non si arrende, cerca, spinge, vive.
A 13 anni impara a leggere – anche in italiano – e a scrivere: il padre lo manda a scuola, al Don Bosco di Pordenone. Lui non crede all’infermità mentale del figlio; anzi, uno dei capisaldi culturali che caratterizza la società friulana vuole che chi non lavora è un parassita e chi si fa mandare al manicomio è un furbo. Al ragazzo è concesso solo l’amore materno; lei sa che, se il figlio è “storto”, non è colpa sua. Ma la mamma di Federico muore quando lui ha solo 16 anni.
Il ragazzo trova il modo per tornare ad Andreis e fuggire da quel posto dove ci sono solo preti; gli mancano le sue montagne. I medici che lo accolgono, le numerose volte in cui viene ricoverato in ospedale in seguito a svenimenti e perdite di coscienza, lo curano alla loro maniera: iniezioni, sedazioni, sonni indotti, psicofarmaci, stordimento. Federico aggiunge l’alcool, per fronteggiare il disagio e sfuggire al suicidio.
Vive tutta la sua esistenza ad Andreis, senza amici, senza un amore corrisposto. Scrive in andreano della sua diversità, senza autocommiserazione, senza rabbia, senza alcuna pretesa di essere compreso. Al contrario, Federico palesa vigorosamente agli altri la sua diversità, per indurre gli altri ad accettare la propria. La sua anima da artista regala diversità agli altri, perché possano crescere e maturare nell’accettazione di sè stessi.
Viene notato dal circolo culturale friulano ‘Menocchio’ (conoscete Menocchio? Aspettatevi uno spiegone molto sostanzioso) che ne pubblica i versi. Numerosi intellettuali lo fanno emergere, senza snaturarlo, dalle sue angosce più nere.
Il 28 novembre 2008 gli è concesso un vitalizio, grazie alla legge ‘Bachelli’, che assicura al poeta un periodo di stabilità economica. Andreis, il paese che lui canta e critica, lo avvolge, coccola e protegge fino alla sua morte, avvenuta per infarto, la notte del 7 novembre di dieci anni fa.
Passate per Andreis e soffermatevi a scorgervi l’anima di Federico, a intuire l’eco dei suoi brontolii, a osservare l’ombra dei suoi movimenti scomposti. E ‘sentite’ le sue poesie.
Qui sotto un breve assaggio.
𝙰𝚗𝚍𝚛è𝚎𝚜
Quatre cjases in crous
Se no tu fai ad ora a scjampâ
uchì tu devente vecje e tu mour
Un po’ de prâtz
dos tre montz
se no tu scjampe pì
tu devente Andrèes
𝙰𝚗𝚍𝚛𝚎𝚒𝚜
Quattro case in croce. Se non sfuggi in tempo, qui diventi vecchio e muori. Qualche prato, due tre montagne. Se non sfuggi, non sfuggi più: diventi Andreis.
𝙵𝚒𝚗𝚎
Dei vecjes
splendours
de la mê famea
soi restât
nome jo:
un’urtia.
𝙵𝚒𝚗𝚎
Dei vecchi splendori della mia famiglia sono rimasto solo io: un’ortica.
𝚂𝚙𝚘𝚙𝚘𝚕𝚊𝚖𝚎𝚗𝚝𝚘
Uchì
murî
al éis deventât
un mout
come un altre
par tirâ indenant
𝚂𝚙𝚘𝚙𝚘𝚕𝚊𝚖𝚎𝚗𝚝𝚘
Qui, morire è diventato un modo come un altro per tirare avanti.