Dopo aver percorso la Via Flavia a maggio 2020 e il Cammino delle Pievi a luglio dello stesso anno, potevo fermarmi in Friuli, quando la situazione sanitaria mi permetteva di viaggiare per lo stivale? Domanda retorica, lo so. Il grande dilemma semmai era: quale cammino scegliere tra le centinaia di possibilità? Ecco che mi viene in aiuto Cinzia, altra donzella dinamica e sempre propositiva. Spulciamo siti, pagine Facebook, blog tematici e lei propone il Cammino Francescano della Marca, da Assisi ad Ascoli. Ci documentiamo, studiamo la suddivisione delle tappe, valutiamo mezzi di trasporto e soluzioni logistiche. Di fronte ad alcuni problemi insormontabili, ci arrendiamo: dobbiamo dirottare le nostre attenzioni verso un altro cammino, più contenuto come tempi e facilmente accessibile.
Altro giro di scandagliamenti ed ecco che spicca la Via degli Dei. Sottoponiamo la nostra scelta alle altre ragazze del gruppo delle “Svalvolate” e anche Chiara ne è entusiasta. Ma siamo ancora in un periodo post-lockdown in cui poche strutture sono certe di riaprire o di poter gestire l’affluenza dei viandanti. E quindi? Non possiamo mica partire allo sbaraglio, col timore di non trovare un tetto sotto cui dormire o imbatterci in gestori di alloggi che, approfittandosi della situazione, ci spellino vive. Facile: tenda! Di fronte a tante incognite e alla complessa organizzazione dell’impresa, optiamo proprio per la soluzione “tenda”. In fin dei conti sono solo 5 notti da trascorrere stese su materassini striminziti, imbacuccate in sacchi a pelo minimalisti, a condividere spazi strettissimi e con ulteriori 3 kg da portare sul groppone. Saranno mica queste inezie a fermarci? Ci riuniamo numerose volte, per studiare i file gpx del percorso, per leggere la documentazione cartacea, per decidere chi porta cosa, per pesare gli zaini e ridurre persi e volumi e per darci coraggio.
E arriva l’alba – ma che scrivo? – la notte fonda del 26/08, il nostro primo giorno sulla Via degli Dei. Si parte in auto alla volta di Bologna, dove parcheggiamo nei pressi del cimitero della Certosa. Puntuali, ore 8, come da tabella di marcia: iniziamo come si conviene, con foto di rito di fronte alle pompe funebri. Scaramanzia a livelli altissimi; ci rivedremo tra 6 giorni, salvo imprevisti. Attraversiamo la periferia bolognese con brio, per raggiungere Piazza Maggiore da dove parte istituzionalmente la Via degli Dei. C’è poca gente per strada e non diamo molto nell’occhio, evidentemente i viandanti sono all’ordine del giorno.
Cerchiamo invano di individuare la segnaletica del Cammino. Una di noi si ricorda che fino al Santuario della beata Vergine di San Luca bisogna seguire le indicazioni del CAI. Ci stavamo già preoccupando, visto che siamo tutte reduci dal Cammino delle Pievi e conosciamo bene quella sensazione spiacevole che dà l’assenza di segnaletica o cartellonistica. Ci ricordiamo di tutte le volte che abbiamo imboccato bivi sbagliati, che abbiamo cercato invano qualche “bollo” e che siamo state costrette ad avviare le app di cartografia per confermare il tracciato seguito. Invece restiamo sorprese per l’abbondanza di cartelli segnaletici e attraversiamo il lunghissimo portico di San Luca fino al Santuario, dove facciamo apporre il primo timbro sulla nostra credenziale.
Dal Santuario si gode di un panorama magnifico, si intravvedono gli Appennini verso sud e le ultime propaggini della pianura padana verso nord. Laggiù c’è Firenze che ci attende, e allora via, si riparte. Ora la segnaletica è evidente e prevede che si percorra il cammino anche in senso inverso.
Mentre scendiamo verso Casalecchio sul Reno notiamo le sostanziali differenze fra le nostre amate Alpi e gli Appennini: i profili dei rilievi sono arrotondati e dolci, i sentieri sono un misto roccia e sabbia, argille e conglomerati, i dislivelli meno impegnativi, il caldo più torrido, la flora è tipicamente mediterranea, a latifoglie e tronchi meno imponenti dei nostri faggi, pini e abeti.
Uscendo dal parco della Chiusa, parecchio animato da bimbi e adulti, abbiamo una piccola incertezza su quale variante imboccare. Una signora ci nota e ci suggerisce il sentiero “antico, quello che fa parte della Via degli Dei dai tempi storici”. Assecondiamo volentieri le sue indicazioni e ci addentriamo in una selva di arbusti e piante a fusto basso. Il sentiero è quasi sempre ben manutentato ma la vegetazione è davvero rigogliosa, tanto che ci accorgiamo piuttosto tardi che stiamo costeggiando il Reno da un po’. Il fondo del sentiero è morbido, trattandosi di quel che resta dell’antico letto del fiume, e polveroso.
Le vegetazione continua ad essere piuttosto bassa, quindi offre poca ombra e iniziamo a sentire caldo, tanto caldo. Attraversiamo, sempre costeggiando il Reno, l’oasi naturalistica di San Gherardo, costituita da un intrico di laghetti che però non possiamo visitare, perché è tutto recintato. Peccato. Sbuchiamo su una strada asfaltata e finalmente iniziamo a vedere viandanti che, approfittando dell’ombra di qualche albero imponente sul ciglio della strada, stanno pranzando al sacco. Noi evitiamo i luoghi troppo frequentati e così procediamo verso il belvedere Vizzano, uno dei pochi punti panoramici dove la fitta selva permette di apprezzare il corso del fiume.
Proseguiamo lungo la strada asfaltata, in leggera salita e non vediamo l’ora di poterci sedere per la pausa pranzo e toglierci gli zaini dalle spalle. Attraversiamo, pur di allontanarci brevemente dal traffico automobilistico, un boschetto costellato di sagome di fauna selvatica. Deduciamo di essere capitate nel bel mezzo di una zona di esercitazioni di tiro con l’arco. Forse è meglio accelerare il passo e uscirne, anche se l’ombra e la frescura ci tentano. Ancora un po’ di asfalto e finalmente torniamo nel bosco. Superiamo un altro gruppo di viandanti, giovanotti aitanti che tentano di attaccare bottone. Ma noi, ringalluzzite dalla salita che ci attende, tiriamo dritto senza badargli tanto. In fin dei conti potrebbero essere i nostri figli. Raggiungiamo il bivio per Badolo, che da descrittivo sarebbe la fine della prima tappa, però noi abbiamo altri programmi.
Ormai siamo entrate nella riserva naturale del Contrafforte Pliocenico e le curiose strutture di rocce e pietre erose dagli agenti atmosferici si fanno ammirare mentre ci avviciniamo al monte Adone. Saliremo in cima domattina, per oggi ci basta arrivare fino al circolo omonimo, piantare la tenda, fare una doccia rinfrescante e cenare in relax. Aggiriamo l’Adone imboccando la variante bassa e raggiungiamo Brento nel primo pomeriggio. Siamo le prime viandanti a giungere al circolo e abbiamo il privilegio di scegliere lo spiazzo erboso dove pernotteremo.
Anche le docce sono tutte per noi e prenotiamo la cena nella locale trattoria con largo anticipo. Con molta calma ci rilassiamo, appendiamo il bucato sui fili stesi fra gli alberi, facciamo una passeggiata per il paesello e ci accomodiamo nella terrazza della locanda. Cena abbondante e calorica, ce lo possiamo permettere: 32,50 km e 850 dsl+. Andiamo a dormire con le galline, stanche ma anche soddisfatte. Lo spazio nella tenda non consente grandi manovre e i sacchi a pelo ci trasformano presto in mummie addormentate. Sentiamo arrivare altri viandanti, che devono ancora montare le tende, ma i loro fastidi non ci toccano: stiamo già sognando la tappa di domani.
Il secondo giorno inizia con un’altra levataccia: la politica del circolo prevede colazione entro le 8,30 ma noi vogliamo salire in cima all’Adone ben prima. Quindi lasciamo gli zaini alla custode e partiamo a passo leggero e sostenuto verso la nostra cima. Le strutture geologiche sono davvero insolite, per noi che siamo abituate ai tormentati carsismi e alle brillanti Dolomie.
Il sentiero, nonostante l’ora, comincia a farsi animato: sono i viandanti che hanno concluso la prima tappa a Badolo e stanno salendo, con gli zaini pesanti, il sentiero classico. Noi scendiamo velocemente: ci aspetta la custode che ci preparerà anche i panini imbottiti per il pranzo. Carichiamo gli zaini e “no, vabbè, mi ha infilato due mattoni mentre eravamo in cima?” Pesano tantissimo e gli aggiustamenti di cinghie, passanti, fibbie e cuciture, testati il giorno prima, aiutano a prendere coraggio. Si scende e alle spalle possiamo ammirare un’ultima volta il monte Adone, mentre di fronte a noi si stendono gli Appennini, coi campi coltivati, colorati di giallo e verde, i boschi di latifoglie ancora brillanti, i sentieri sabbiosi che li attraversano, le colline a movimentare l’ampio panorama.
Raggiungiamo una coppia di viandanti, lei porta appesa al collo una macchina fotografica professionale. E ci rendiamo conto che, anche se non li conosciamo e forse mai li rincontreremo, bisogna comunque dargli un nome e loro due saranno “la fotografa e l’assistente”. Li superiamo e raggiungiamo un altro gruppetto di ragazzi, “gli irlandesi” perché uno di loro sfoggia una chioma rossa e lentiggini in viso. Sono italiani pure loro e, nonostante imbocchino una delle varianti più trafficate prima di entrare a Monzuno, li ritroveremo parecchie volte sul Cammino.
Noi optiamo per una più tranquilla strada comunale, che ci porta in centro al paese con una decisa salita da est. Il centro cittadino accoglie i viandanti con striscioni, cornici da utilizzare per scattare foto, panchine dedicate e molte infrastrutture pensate per il pellegrino: negozietti, bar, caffetterie, take-away, fruttivendoli. E constatiamo un’altra sostanziale differenza con i cammini che abbiamo vissuto nei mesi precedenti: il viandante è una risorsa, sia economica che turistica. Lo si accoglie, gli si rende la vita facile, lo si informa perché esporti esperienze e impressioni e perché ritorni in futuro, magari accompagnato. In Friuli, questi aspetti non sono ancora stati pienamente compresi, tantomeno applicati. Pranziamo in piazza e riceviamo molti consensi dai locali: fanno sempre piacere tre ragazze toste e allegre di passaggio in un paese che, altrimenti, sarebbe molto più silenzioso.
Riposate e ristorate usciamo dal simpatico centro abitato e, consultando la nostra fedele app cartografica, scopriamo che ci attende una incantevole attraversata di cime e cimette, con una decisa salita iniziale. La sorpresa, di trovare un parco di arte contemporanea e addirittura un baretto aperto nel bel mezzo del bosco, è grande.
Scambiamo due parole col barista a proposito di orsi e lupi e ci prendiamo qualche minuto per ammirare le opere d’arte esposte.
Scopriremo, una volta a casa, che lì si svolgeva un “raduno” annuale di artisti, scultori e pittori, prima che la pandemia impedisse tutte queste attività comunitarie. Una breve deviazione, per espletare incombenze fisiche, ci permette di abbuffarci di more. Ormai abbiamo capito quando siamo su un sentiero trafficato o su una variante meno conosciuta: in tal caso, abbondano i frutti di bosco e la natura è pressoché intatta. Fatta abbondante merenda, si torna sul sentiero e passiamo accanto a un orrendo ripetitore telefonico, ma poco oltre ci fermiamo ancora per ammirare il paesaggio.
Saliamo in cima a Monte Poggio Santa Croce, alle Croci, al Monte Galletto. Da lì in poi intravvediamo la nostra meta: Madonna dei Fornelli. Ma prima attraversiamo il parco eolico di Monte Galletto. Ci accompagna un sommesso ronzio, prodotto dal movimento delle enormi pale, e notiamo le imponenti torri; le releghiamo fra le opere umane che male si inseriscono nell’ambiente in cui sono poste. Ma il progresso ha bisogno anche di loro.
Ancora pochi chilometri di sentiero polveroso e soleggiato e arriviamo al fine tappa odierno. Ci accampiamo sul prato nel retro di un ristorante locale, siamo le prime anche oggi e la doccia è tutta nostra. Sciacquiamo gli abiti impolverati e ci riposiamo sulle sdraio offerte dal ristorante. Montiamo la tenda mentre sopraggiungono altri viandanti, ragazzi e ragazze incontrate lungo i sentieri e superati con spensieratezza. Ci accorgiamo che la loro età media è piuttosto bassa e, a parte un paio di maschietti che sembrano essere nostri coetanei, siamo le più “diversamente giovani” tra i presenti.
All’ora di cena ci presentiamo in pizzeria: aperitivo con uno spritz e lauta cena. Parlottiamo coi nostri vicini di tavola: uno di loro porta a spasso la sua cagnetta sulla via degli Dei, con tempi e ritmi decisi dalla pelosetta; una coppia sta affrontando il Cammino per un secondo tentativo, visto che il primo era stato abortito per indisposizione della signora. Insomma, umanità varia, viva, vitale e positiva. Ci accomiatiamo e infiliamo nella tenda, con tante emozioni, ricordi da elaborare e sogni da fare e altri 27 km messi in saccoccia.
Sveglia all’alba, per fotografare il sorgere del Sole. Queste sarebbero state le intenzioni. Invece le sveglie suonano, ma nessuna di noi le ascolta. E così usciamo dalla tenda che il sole splende già alto sulla nostra terza giornata di Cammino.
Sbaracchiamo in fretta, facciamo un’abbondate colazione a buffet in pizzeria, servite dal travolgente e simpaticissimo Amir, e ci dirigiamo verso il negozietto di alimentari del paese. Mentre ci facciamo preparare un super panino imbottito, ci tiene compagnia Romeo, gattone color crema, affettuoso e adorabile.
La titolare del negozio chiacchiera con noi, ci scambiamo impressioni sui rispettivi luoghi di provenienza e su quello che il territorio offre. La signora, visto che siamo adorabili pure noi, ci farcisce i panini abbondantemente. Ci avverte che la salita a Pian delle Balestre è tosta, poi si corregge: è tosta per una come lei, per noi invece sarà una passeggiata. Alcune ore dopo, quando attraversiamo il confine regionale tra Emilia Romagna e Toscana, confermiamo che dopotutto ci siamo divertite anche stavolta, a salire con grinta e determinazione, superando parecchi altri viandanti.
Notiamo che in Toscana la segnaletica cambia sostanzialmente: si passa dai segnavia molto seri e composti dell’Emilia Romagna a quelli artigianali, curati e proprio belli da vedere, della Toscana. Ci alziamo ancora un po’ di quota e scolliniamo in località Campo dei Grilli, dove ci attende una nebbiolina bassa, aggrappata ai versanti toscani.
Ci stiamo addentrando nella parte di sentiero da dove, con piccole deviazioni, si può ammirare l’antica via Flaminia Militare, costruita dai romani per collegare Bologna a Fiesole.
In sostanza, gran parte della Via degli Dei scorre sopra o parallela a questa antica via di comunicazione e noi ci dilettiamo a calpestarne un tratto, molto ben ripristinato e curato. Torniamo al sentiero ufficiale e ci godiamo il bosco fitto e fresco. La nebbia si sta dissolvendo e lo sguardo può nuovamente tornare ad ammirare i panorami.
Poco dopo mezzogiorno e soli 15 km di Cammino percorso, arriviamo al passo della Futa, raggiungiamo il campeggio, ci mangiamo con gusto il panino preparato a Madonna dei Fornelli, montiamo la tenda e svolgiamo le solite mansioni da pellegrine. Sulla via degli Dei, oltre ad ammirare luoghi, paesaggi e panorami, c’è anche modo di riflettere su tempi non troppo lontani e su eventi tragici accaduti in zona. La seconda guerra mondiale qui si è combattuta con ferocia ed enormi perdite umane. Poco lontano dal campeggio c’è l’imponente cimitero militare tedesco e noi lo visitiamo in silenzio.
Il gran numero di pietre tombali e l’età media davvero bassa dei soldati sepolti ci sommergono di tristezza. Torniamo al campeggio e, per non farci mancare proprio nulla, ci tuffiamo in piscina a rinfrescare idee, muscoli e legamenti, prima di recarci in pizzeria e recuperare le calorie perse durante la giornata. Il cielo si sta annuvolando e temiamo possa piovere, durante la notte. Prepariamo quindi gli zaini in modo da poterli recuperare senza troppi problemi, anche a notte fonda, se dovesse davvero piovere. Trascorriamo la seconda parte della nottata abbracciate agli zaini in spazi già di per sé stretti. Ma anche questo evento ci arricchisce di nuove conoscenze.
La sveglia del quarto giorno è puntata prima del sorgere del Sole: la pioggia costringe il viandante in tenda ad asciugare con cura tutto quello che si è bagnato di notte. Quante cose s’imparano strada facendo. Zaino in spalla, sospettosamente sempre più pesante, ci rechiamo al bar del campeggio per un caffè e il ritiro del pranzo al sacco preparato dal gestore del campeggio. Ritroviamo i due ragazzi incontrati il primo giorno, quelli che tentavano di attaccare bottone, soprannominati “i riminesi” per la loro provenienza . Gli confidiamo il timore di prendere pioggia, la notte successiva. Ci suggeriscono di chiamare un B&B a Tagliaferro, dove pernotteranno anche loro. Breve consulto e contattiamo la struttura; la fortuna è dalla nostra, hanno ancora tre posti letto liberi, con cena e colazione abbondanti inclusi.
Questo cambio programma ci costringe ad allungare di alcuni kilometri la tappa odierna, ma al contempo accorcia quella del quinto giorno e di conseguenza ci espone meno alle probabili intemperie che dovessimo incontrare sulla strada per Firenze. In più, se il meteo collaborasse, potremmo raggiungere Firenze già il quinto giorno, risparmiandoci un ulteriore pernottamento in quel di Fiesole. Felici di aver risolto con flessibilità l’empasse logistica e rasserenate dalla soluzione alternativa a una notte in balia degli eventi atmosferici, affrontiamo la discesa dalla Futa.
Il cielo non promette nulla di buono, ma in un attimo siamo nel bosco e decidiamo di ignorare le nubi. Un continuo saliscendi su dolci crestine appenniniche ci porta al belvedere del monte Gazzaro. In lontananza sentiamo un roboante rumore di motori: è domenica e la app cartografica ci rivela che siamo nei pressi del Mugello e il vento trasporta il rombo dei bolidi che sfrecciano in pista.
La foresta ci regala qualche chicca di toponomastica, qualche rudere suggestivo e qualche deplorevole segno del passaggio di viandanti maleducati.
Ritroviamo la “fotografa” col suo assistente che immortala angoli e scorci notevoli. In discesa, nonostante lo zaino, accenniamo a una corsetta, per cambiare un po’ il ritmo e obbligare le gambe a un passo più vario. Passiamo per località Osteria Bruciata e optiamo per una variante bassa, onde evitare l’ennesima salita. Cinzia dà qualche segno di sofferenza, il suo ginocchio destro ha deciso di non assecondarla più e i chilometri sono ancora tanti. Usciamo dal bosco per infilarci in un sentiero meno accidentato, per la gioia di Cinzia, ma pure per la nostra. La spilungona del gruppo (io) viene convinta ad afferrare gli stralci di more che in alto sono ancora carichi di frutti maturi; merenda molto gradita a quest’ora del mattino.
Passiamo accanto al borgo di Sant’Agata, senza entrarci per visitarlo, perché allungare ulteriormente il Cammino non ci sembra una buona idea. Ci accodiamo a una coppia di amici che discutono animatamente sul programma della giornata successiva. Uno dei due, da pellegrino inflessibile, sta facendo il calcolo dei chilometri da Tagliaferro a Firenze. L’altro insiste a voler prendere l’autobus a Fiesole, per risparmiare gli ultimi otto chilometri. Li confortiamo rivelandogli che esiste una variante breve che da Fiesole porta direttamente alla meta, senza troppi ghirigori nelle campagne circostanti.
Li abbandoniamo all’ora di pranzo nei pressi di un’azienda agricola, dove spavalde e affamate suoniamo il campanello. La gentilissima titolare ci vende cibarie varie, a integrazione del panino che portiamo nello zaino: yoghurt di capra, fette generose di formaggio, e da ultimo, ci regala pure le pere “hol baho”. E che problema c’è, se hanno l’inquilino? Coltellino svizzero, estrazione bachi e gusto a volontà. Le pere più buone che abbiamo mangiato, da anni.
Gli amichevoli animali domestici dell’azienda ci tengono un’allegra compagnia.
Ma dobbiamo ripartire e ci attende ancora molto asfalto e una bella salita, poco prima della meta.
In breve tempo ci riagganciamo alla coppia di amici ancora in controversia. Raggiungiamo, tra tante risate e due chiacchiere, San Piero a Sieve. Mentre i due amici continuano la loro discussione, ci concediamo tutti assieme una breve sosta caffè. Cinzia ha il ginocchio incriminato gonfio ma non si lamenta. D’altronde, anche lei sa bene che non abbiamo molte alternative al raggiungere Tagliaferro. A essere sincere, il titolare del B&B ci ha offerto un passaggio in auto, qualora fossimo troppo provate per la tratta finale da San Piero a Tagliaferro, ma noi siamo pellegrine, coerenti e perseveranti. E soprattutto ci teniamo compagnia, ci supportiamo, sappiamo incoraggiarci a vicenda e ascoltarci. Cinzia non ne vuole sapere, né di antidolorifici né di scorciatoie: finché regge il ginocchio, reggerà anche lei, e viceversa.
Ci attende il Trebbio, con la sua Villa Medicea in cima, ma soprattutto ci intriga la salita al borgo medievale. Quelle di noi con i giunti ancora in piena efficienza, salgono accettando la sfida. Arriviamo in cima col fiatone ma molto soddisfatte di noi e della nostra tempra. In fin dei conti abbiamo zaini da 13 kg sulle spalle e quasi 100 km nelle gambe. Anche Cinzia ha allungato il passo, tanto da far mangiare la polvere ai due amici ciarlieri. La Villa è chiusa per restauro, purtroppo; avremmo apprezzato molto una sosta culturale e soprattutto avremmo riposato volentieri nel parco della Villa: cipressi e latifoglie che offrono ombra invitante e l’assenza di turisti sarebbero state condizioni ottimali. Le nubi, fedeli compagne della mattinata, si stanno dissolvendo e il Sole picchia; riempiamo le borracce alla fontana e proseguiamo uscendo dal borgo.
Calpestiamo il sentiero che scorre a fianco di campi coltivati, vigneti e frutteti. Continuando imperterrite a camminare, facciamo merenda volante con more e altra frutta che prendiamo “in prestito”. L’app cartografica ci informa che manca pochissimo alla meta odierna e infatti, imboccato il sentiero in discesa, intravvediamo Tagliaferro, dopo aver percorso quasi 34 km. Il B&B è in realtà un casolare del 1400, molto affascinante, curato e caratteristico, con giardino sul retro e una piscina a disposizione degli ospiti.
Come al solito siamo le prime e sbrighiamo con calma le nostre incombenze quotidiane, per un’ultima volta. Una meritata pennichella in un letto vero ci distoglie dalla piscina e sentiamo solo l’arrivo di altri due gruppi di viandanti che incontreremo a cena.
Trascorriamo una frizzante e interessante serata coi “riminesi” e un altro duo di aitanti ragazzoni: uno sta festeggiando l’addio al celibato, l’altro lo tiene a bada, su raccomandazione della futura moglie del primo. Ci confrontiamo sui motivi che ci hanno spinti a percorrere il Cammino, sui programmi futuri, sulle esperienze vissute e le impressioni raccolte lungo la Via degli Dei. Noi donzelle abbiamo modo di rimediare a una gaffe del primo giorno, quando i “riminesi” ci avevano rivolto un sincero complimento e noi, prese da discorsi nostri, gli avevamo risposto con involontaria supponenza. Non siamo certo ragazze altezzose o sdegnose; è che non avevamo proprio capito la loro esclamazione bonaria.
Vino buono e abbondante, una pappa al pomodoro deliziosa, carne alla brace e frittata alle erbe, torta di riso e la grappa per terminare degnamente e digerire il pasto, rendono la cena memorabile. Ci congediamo, decisamente allegre, e ci concediamo un sonno comodo e rassicurante, nonostante il temporale che si sta addensando sopra le nostre teste e che sentiamo appena.
La sveglia suona per l’ultima volta, durante questa avventura: e, guarda un po’, siamo le prime a fare colazione, a prepararci e a partire, non prima di aver salutato i nostri temporanei coinquilini. Usciamo, sicure che le nubi non hanno sfogato tutto il loro potenziale, e ci attrezziamo in merito, coi poncho a portata di mano. Imbocchiamo fin da subito in sentiero in salita; il ritmo è sostenuto perché, più chilometri maciniamo prima che si abbatta su di noi la pioggia, e meglio è. I ginocchio gonfio e dolorante di Cinzia è stato nastrato e fasciato a regola d’arte da Chiara, come se fosse un pacco di Amazon.
Raggiungiamo un quartetto di giovanissimi boyscout, coi loro zaini adorni di bandane colorate, che ha dormito all’addiaccio. Si erano presentati la sera precedente al nostro B&B, ma a causa delle restrizioni dovute alla pandemia il titolare non ha potuto ospitarli e gli ha permesso di piantare le tende nella loro proprietà. Si sono presi la pioggia e anche la grandine, ma il loro morale è altissimo nonostante la nottataccia. Tentano di allungare il passo: non sanno che noi avremo pure passato gli “anta” ma che la motivazione e la forza d’animo possono più della giovane età. Formiamo un bel gruppetto, passando accanto alla Badia del Bonsollazzo e addentrandoci nel bosco di Monte Senario.
Lo striscione che troneggia sul sentiero non è molto rassicurante.
Inizia a fare caldo, ma è soprattutto l’umidità che ci infastidisce. Qualche rara folata di aria più fredda annuncia il maltempo con largo anticipo. I boyscout continuano a farci strada nel folto bosco e noi li talloniamo comodamente. Alcuni di noi iniziano a schiaffeggiarsi insistentemente, ad agitare berretti e bandane, a procedere con passi scomposti: subiamo un attacco feroce e suicida di tafani, o mosche cavalline che dir si voglia. Si infilano nelle maniche, tra i capelli, ci ronzano fin dentro le orecchie, ci mordono attraverso gli abiti, nonostante l’abbondante “doccia” preventiva fatta col repellente apposito. Ci fermiamo a cospargerci ancora di repellente; i ragazzi rifiutano la nostra offerta di aiuto. Ne usciamo solo in cima al Giogo, dove il sottobosco si fa meno fitto e l’aria si è rinfrescata di molto. Contiamo i morsi, mentre superiamo i boyscout, e torniamo a godere di panorami ampi e incantevoli.
Arriviamo al santuario di Montesenario, in tempo per un caffè e qualche piccolissimo acquisto come souvenir. Vediamo arrivare i boyscout, uno di loro ha il viso gonfio di morsi, evidentemente hanno avuto loro la peggio nello scontro coi tafani.
Facciamo un giro esplorativo del santuario e volgiamo lo sguardo verso nord, abbracciando gli Appennini attraversati nei giorni scorsi. La caffeina fa effetto e terminiamo la breve sosta.
Si scende, con calma per non sollecitare i giunti doloranti, verso la Ghiacciaia di Montesenario.
E mentre le giriamo attorno, riceviamo la telefonata di Alice. Lei non se ne rende conto, ma le sue chiamate arrivano sempre al momento giusto e portano tanta allegria e nuovo sprint. La aggiorniamo sulla variazione di programma dovuta al meteo e sul conseguente rientro anticipato, lei ci augura buoni ultimi chilometri. Poco oltre incontriamo una ragazza che, in solitaria, sta facendo il Cammino in senso inverso. Le offriamo il repellente avanzato, ma lei ci rassicura che ne è abbondantemente dotata, avendo già attraversato la zona infestata dai diavoli volanti. Il bosco termina e torniamo ad attraversare le campagne fiorentine. Paesaggi che ci lasciano a bocca aperta, così inusuali per noi “alpine”. Il cielo non promette nulla di buono, siamo pronte al peggio.
All’altezza del Photopoint nei pressi di Poggio Capanne scambiamo due parole con un film-maker che festeggia i suoi 40 anni percorrendo il Cammino con l’intento di raggiungere Firenze proprio oggi. Gli facciamo i nostri sentiti auguri e ci accodiamo a lui, sul sentiero che conduce a Poggio Pratone. Appena oltrepassato Olmo, inizia a piovigginare. Estraiamo veloci i poncho e copriamo gli zaini con le custodie antipioggia, mentre chiediamo a Giove Pluvio ancora qualche ora di clemenza. Ma così non sarà: saliamo sotto la pioggia battente per un tratturo che, in condizioni normali, dev’essere piacevole da percorrere. Al momento attuale è diventato un rivolo di acqua fredda, condito di fango melmoso e pietre scivolose. Perdiamo il 40-enne e acceleriamo ulteriormente il passo.
Sbuchiamo in cima a Poggio Pratone, dove la vegetazione è sostituita da antenne di telecomunicazioni, mentre si scatena il finimondo: pioggia a 360° grazie anche alle violente folate di vento che soffia di traverso, lampi e tuoni, nuvole basse e minacciose e temperature in picchiata. Ci concediamo una foto ricordo sotto l’unico albero che svetta in cima e ci allontaniamo molto di corsa, visto il rischio reale di essere colpite da un fulmine.
La discesa è poco piacevole: il rivolo è diventato un fiume di acqua fangosa e gelida in piena e ci stiamo sguazzando dentro fino alle caviglie. Non vediamo più il fondo del sentiero e saltelliamo alla cieca da uno spiazzo asciutto ai sassi sporgenti. Siamo abbastanza avvezze a questi contrattempi, ma la furia della natura e la sua repentina trasformazione, da materna dispensatrice di meraviglie a pericolosa e infida matrigna, ci sorprendono sempre. Finalmente torniamo a calpestare asfalto, mai così desiderato come in questo momento. Facciamo il punto della situazione: nessuna di noi ha riportato danni, siamo bagnate fradice nonostante i poncho, abbiamo fame e siamo infreddolite. Non ci resta che continuare a camminare, mentre la pioggia cessa di colpo com’è iniziata, e dopo pochi tornanti intravvediamo Fiesole, decisamente sollevate.
Ci accampiamo momentaneamente presso la casa del Popolo, per cambiarci le magliette e calzini fradici, riordinare gli zaini, mangiare i tramezzini acquistati poco prima
e goderci lo scorcio dal terrazzone panoramico da dove possiamo chiaramente vedere per la prima volta Firenze, ormai davvero poco distante.
Si ferma a chiacchierare con noi una signora distinta e disponibile, che si presenta come la ex-gestrice del locale circolo ricreativo. Sfoggia una cultura che ci impressiona e ci dà molte dritte su cosa visitare a Firenze, luoghi fuori dal circuito turistico solito. Prendiamo nota, ma sappiamo già e a malincuore che non avremo il tempo necessario per visitarli. Sono però una motivazione ottima per tornare a Firenze, con più calma e in altre condizioni sanitarie e sociali. Affrontiamo l’ultimo tratto della Via degli Dei: scegliamo la scorciatoia per via della Piazzuola che ci risparmia una buona ora di cammino. Entriamo in città più euforiche che mai.
Anche il ginocchio di Cinzia sembra sceso a più miti consigli e ci permette di gironzolare per la città alla ricerca di una trattoria per pellegrine affamate e dell’ultimo timbro da apporre sulle nostre credenziali.
Facciamo lo slalom tra molta gente che affolla il centro, riconosciamo alcuni viandanti già salutati lungo la Via degli Dei e ci sorprendiamo a pensare ai nostri zaini, sempre saldamente appollaiati sulle nostre spalle, che ormai non hanno più né peso né volume. E’ sconcertante quello che può la testa, quando è sorretta da una motivazione salda, da perseveranza intaccabile e da una compagnia affiatata. Dopo 32 km di sentieri, fango, pioggia e insetti, ci permettiamo di aggiungerne altri 4 per visitare il centro cittadino.
Giustamente le onnivore divorano una, a dir loro, appetitosissima fiorentina mentre la vegetariana si concede un’insalatona altrettanto gradevole. A passo sostenuto ci dirigiamo verso la stazione ferroviaria e attendiamo il treno regionale che ci riporta alla partenza. Attraversiamo a ritroso molti paesi visitati nei giorni precedenti: in poco più di 40 minuti percorriamo i tanti chilometri macinati in 5 giorni. Ci congratuliamo a vicenda, facciamo i conti della distanza e del dislivello complessivi, contattiamo amici e parenti per rassicurarli e scendiamo a Bologna.
A piedi, rigorosamente a piedi, ci dirigiamo verso il parcheggio del cimitero, dove tutto è iniziato, e immortaliamo, con la solita goliardia e sotto l’insegna delle pompe funebri, il nostro rientro vittorioso. L’ultima di noi a raggiungere il proprio tanto agognato letto si addormenta alle due di notte, serenamente soddisfatta e decisamente sfinita, ma non prima di aver pesato lo zaino: a pieno carico, cioè compresi un terzo di tenda e due litri di acqua, sono 15 kg. Alla faccia…
Come sempre vogliamo ringraziare i nostri parenti e amici che hanno sopperito alle nostre assenze, sopportato le nostre paturnie e supportato la nostra impresa. Senza la loro preziosa e benevola collaborazione, tutti i nostri sogni rimarrebbero tali. Ringraziamo tutte le anime gentili incontrate sulla Via degli Dei, fossero esse bipedi o quadrupedi: resteranno a lungo nei nostri cuori. Auspichiamo che questo racconto possa invogliare i viandanti che ancora titubano sull’intraprendere questo meraviglioso Cammino e abbiamo la timida speranza che, chi lo leggesse con spirito critico, possa trarre idee e impressioni utili anche per migliorare e implementare soluzioni simili in terra friulana.
La Via degli Dei