𝙇𝙤 𝙨𝙖𝙥𝙚𝙫𝙞 𝙘𝙝𝙚?
Ogni promessa è un debito, dicono. Consultare i documenti presenti sul web e quello che ho di cartaceo sull’argomento è stato impegnativo, ma molto remunerativo. Sia dal punto di viste dell’arricchimento personale che di nuovi spunti per altre ricerche e conseguenti racconti. Mi sono però anche resa conto che l’argomento è vasto e sfaccettato, coinvolge più luoghi e popoli, abbraccia tempi lunghissimi e pone tantissimi dubbi. In primis ai professionisti del settore, poi a me che ho cercato – nel mio minuscolo – di chiarirmi le idee. Ho quindi deciso, per la corposità dello spiegone, di spezzarlo in due spieghini, augurandomi di non minarne la continuità e confidano come sempre nella curiosità e interesse che caratterizzano il mio ‘pubblico affezionato’.
Inizio dalla geografia, che pare essere immutabile se riferita ai tempi umani. Invece ho scoperto che anche questa convinzione è parzialmente errata. E come è mia abitudine, andiamo per ordine.
Il toponimo “𝙕𝙪𝙘” (o le sue varianti Çuc, Ciùc, Zùcch, Zucco) indica un colle tondeggiante o una vetta arrotondata. E fin qui non ci piove.
“𝙎𝙘𝙟𝙖𝙧𝙖𝙢𝙤𝙣𝙩” pone già qualche dubbio. Alcuni studiosi lo hanno scomposto in “S+cjar+a+mont” attribuibile a una lingua prelatina. Il termine “𝘤𝘫𝘢𝘳” è di origine preindoeuropea (celtica/carnica, per semplificare), derivato da *𝘬𝘢𝘳𝘳𝘢/𝘨𝘢𝘳𝘳𝘢* e significa “pietra”. Per inciso – ma seguirà spiegone – tantissimi toponimi del Friuli settentrionale, tipo “𝘊𝘢𝘳𝘯𝘪𝘢” / “𝘊𝘢𝘳𝘯𝘪𝘰𝘭𝘢” / “𝘊𝘢𝘳𝘴𝘰” provengono dallo stesso temine. Invece “𝘮𝘰𝘯𝘵” è abbastanza intuitivo. In parole povere, se fosse corretta l’interpretazione prelatina, il luogo si chiamerebbe “Colle di pietra del monte” oppure “Colle del monte di pietra”.
Altri linguisti hanno sentenziato che Scjaramont è una contrazione – tipicamente friulana – di 𝘾𝙖𝙨𝙩𝙚𝙡 𝙍𝙖𝙞𝙢𝙤𝙣𝙙𝙤, che poi è il toponimo del luogo in italiano. L’opinione è corroborata dal fatto che Raimondo della Torre, patriarca d’Aquileia dal 1273 al 1299, abbia preteso l’edificazione di un castello sul promontorio, in opposizione a quello dirimpettaio e rivale di Flagogna.
Appurate le origini linguistiche del luogo, passiamo a definire la geografia. L’area chiamata Zuc Scjaramont (la chiamerò solo così, d’ora in avanti) è collocata su un promontorio dell’altopiano di 𝘔𝘰𝘯𝘵𝘦 𝘗𝘳â𝘵, che si allunga tra quota 428 e 441 mt. s.l.m. In realtà, l’area si compone di tre piccoli rilievi, ognuno con una propria storia. Ed è questo il motivo per cui lo spiegone è così complesso.
Il luogo è stato scelto dai primi residenti per poter osservare agevolmente un ampio tratto del Tagliamento e dell’affluente Arzino, oltre che i rilievi contigui. Ricordo che nelle strette vicinanze i castelli e le torri di avvistamento, dall’età romana o medievale in poi, si contano a decine: Ragogna, Flagogna, Osoppo, Buja, Pinzano, Vigna, Toppo, Spilimbergo solo per citarne alcuni. Ricordo anche che il Tagliamento e l’Arzino erano vie fluviali assiduamente trafficate e potevano rappresentare agevoli porte d’accesso a milizie poco amichevoli. Alle spalle di Zuc Scjaramont, l’altipiano di Monte Prât che fungeva allo stesso tempo da baluardo protettivo che da punto di vedetta privilegiato.
Ma veniamo alla scintilla che ha dato il via ad uno dei ritrovamenti più significativi di tutto il Friuli pedemontano. Un’antica leggenda narrava che un vitello d’oro sarebbe stato nascosto tra le radici di un albero cresciuto sul famoso promontorio (oppure gettato da lì nell’Arzino). Il sacerdote di Forgaria, Guglielmo Biasutti, raccoglie e racconta la storia nel suo volume “Forgaria, Flagogna, Cornino, San Rocco” del 1976. Il parroco è da tempo a conoscenza dei ritrovamenti fortuiti di monete, frammenti di ceramica e ossa avvenuti alla fine del XIX secolo in località ‘𝘗𝘶𝘴𝘵𝘰𝘵𝘢’ e ‘𝘗𝘭𝘢𝘯 𝘥𝘦 𝘭𝘢 𝘍𝘰𝘯𝘵𝘢𝘯𝘢’, a ridosso del famoso colle. Deve solo rendere la leggenda più corposa e intrigante; il resto lo fanno alcuni appassionati di storia, che si mettono a scavare e indagare. Non trovano tracce del vitello d’oro, ma i segni inequivocabili di un importante insediamento umano.
Le indagini passano saggiamente all’Istituto Italiano dei Castelli, i cui archeologi credono di dover recuperare e interpretare strutture medievali, ma si sbagliano. Le origini sono molto più antiche. Altro passaggio di competenze, stavolta all’Istituto di Archeologia dell’Università di Bologna, che tra il 1988 e il 1992 compie approfondite campagne di scavo; nel 1999 le ricerche vengono condotte dell’Università di Parma.
Quello che viene portato alla luce, sepolto da metri di strati e sedimenti depositati dall’uomo e dal tempo, è sorprendente. Vado per ordine cronologico di edificazione, non di scoperta archeologica.
Nel IV secolo a.C. (età del Ferro) viene costruito un insediamento sul promontorio, precisamente sul cocuzzolo centrale: un villaggio costituito da varie abitazioni adibite anche a attività artigianali e manifatturiere. Piccoli giacimenti di ferro, situati lungo le pendici di Monte Prât, inducono gli abitanti a specializzarsi nella metallurgia. Ma si lavora anche il ferro proveniente da 𝘊𝘢𝘷𝘦 𝘥𝘦𝘭 𝘗𝘳𝘦𝘥𝘪𝘭, a confermare i capillari scambi commerciali che animavano il Friuli già allora. Le fondamenta delle officine sono ancora oggi visibili.
Ma l’edificio che senza dubbio fa restare il visitatore a bocca aperta è la “𝙂𝙧𝙖𝙣𝙙𝙚 𝘾𝙖𝙨𝙖“, edificata sul rilievo orientale. I reperti trovati all’interno dalle casa indicano che fungeva da sede del potere politico e religioso della comunità. Già le misure sono imponenti: 15 x 7 metri, laddove le costruzioni “gemelle” (vedi Cjarsovalàs) raggiungono appena 5 x 4 metri. E’ seminterrata, orientata Nord-Sud, ospita tre ambienti a cui si accede da un lungo corridoio, esternamente coperto da un porticato. La base delle pareti è formato da grosse pietre posate a secco, su cui poggiano pareti di legno, purtroppo decomposte. Il tetto, di paglia o legna, è sorretto da un sistema di pali angolari che appoggiano su pietre piatte, alcune ancora visibili. I pavimento è in terra battuta.
L’ambiente centrale della “𝙂𝙧𝙖𝙣𝙙𝙚 𝘾𝙖𝙨𝙖” è quello più ricco di sorprese. Sotto al pavimento cela il rito di fondazione: due cerchi di pietre, orientati Est-Ovest, circondati a loro volta da un più ampio giro di pietre. All’interno dei cerchi, alcune offerte votive: vasetti di ceramica e uno 𝙞𝙮𝙣𝙭, o frullo caccia-spiriti, fatto in osso di ovino con funzioni magico-musicali. Il frullo è fatto roteare fino a quando non emette un sibilo. I sacerdoti della comunità, interpretando quel suono, ne traggono ispirazione per le decisioni da prendere.
Nello stesso ambiente si trova un grande focolare ovale. Ha suscitato scalpore – e non poco – il ritrovamento, fra le pietre del focolare, di resti di sepoltura di 11 feti, 𝙗𝙖𝙢𝙗𝙞𝙣𝙞 𝙢𝙖𝙞 𝙣𝙖𝙩𝙞. Alcuni resti presentano tracce di interventi abortivi, come ad esempio l’escissione dell’anca dei feti, per poterli estrarre dal grembo materno, in occasione di parti difficili, senza causare danni fatali alla donna. La sepoltura di feti è caratteristico delle popolazioni preromane delle Alpi orientali. Lo si legge come la volontà di custodire nel nucleo famigliare tutta la forza vitale, inclusa quella dei bambini, che fossero nati e vissuti o meno. I resti mortali di quei bimbi sono ancora oggi oggetto di studio.
Ulteriori ritrovamenti di ceramiche e oggetti ornamentali e di uso personale, indicano che il villaggio rappresentava un punto di contatto fra la cultura paleoveneta della pianura e quella celtica insediatasi nelle vallate alpine del Friuli.
Tra il II e il I secolo a.C. le frizioni fra le popolazioni Carnico-celtiche e i Romani, ormai approdati ad Aquileia, costringono gli abitanti del villaggio a costruire una 𝙩𝙤𝙧𝙧𝙚 𝙦𝙪𝙖𝙙𝙧𝙖𝙩𝙖 𝙙𝙞 𝙫𝙚𝙙𝙚𝙩𝙩𝙖, in ‘𝘗𝘭𝘢𝘯 𝘥𝘦 𝘭𝘢 𝘍𝘰𝘯𝘵𝘢𝘯𝘢’, che metta in contatto visivo il colle di Osoppo e quello di Ragogna. L’abitato viene anche circondato da un muro di fortificazione, in terra, pietra e legno, tipico delle popolazioni celtiche. Quando Cesare ne vedrà uno simile in Gallia, un secolo più tardi, lo chiamerà murus gallicus. Anche del muro è ancora visibile un tratto, nei pressi del colle occidentale.